Pakistan
Di Moreno Pasquinelli Come spiegare che la splendida valle dello Swat, anticamente sacra ai buddisti e poi passata ad un islam tutt’altro che oscurantista sia diventata negli ultimi anni una roccaforte di agguerrite e integraliste milizie pashtun? Perché il tradizionalmente pacifico Swat è divenuto nelle ultime settimane un sanguinoso teatro di guerra? Non certo perché la borghesia pakistana vuole riprendersi il suo luogo di villeggiatura prediletto. La posta in palio è davvero la sopravvivenza del Pakistan come stato-nazione unitario? Dallo Swat gli americani (e gli europei) sperano infine parta la controffensiva che li aiuti a venir fuori dal pantano afghano sigillando la frontiera orientale.
La fulminea avanzata delle truppe dell’esercito pakistano in corso dal 26 aprile nella valle dello Swat non deve trarre in inganno. Difficilmente potrà essere considerata la battaglia risolutiva, come l’atto che cancellerà l’egemonia conquistata sul terreno dal Tehreek-e-Nafaz-e-Shariat-e-Mohammadi (TNSM: Movimento per l’applicazione della Legge Islamica). Già l’ex-presidente Musharraf tentò con ogni mezzo di contrastare l’avanzata degli islamisti radicali in questa valle. Forte dell’appoggio del notabilato locale egli giunse nel gennaio 2002 a mettere fuori legge il TNSM. Ma ciò non sortì alcun effetto. Proprio a partire dal 2002, come conseguenza dell’invasione americana dell’Afghanistan, lo Swat divenne teatro di scontri sanguinosi tra le milizie fedeli ad Islamabad e quelle fondamentaliste locali a loro volta collegate al Tehrik-i-Taliban Pakistan (TTP), la potente coalizione islamica delle tribù pashtun che controllano le province al confine con l’Afghanistan.
L’avanzata islamista viene tuttavia ancora più lontano, affonda le sue radici negli anni ‘80, quando il Pakistan, in combutta con gli USA e l’Arabia Saudita, divenne retrovia della guerra totale per rovesciare i governi di sinistra a Kabul e quindi l’influenza sovietica in Afghanistan.
Tutta l’ampia fascia di confine a ridosso dell’Afghanistan, sia le N.W.F.P (Province della Frontiera del Nord-Ovest, con capitale Peshawar) che il F.A.T.A. (Aree Tribali di Amministrazione Federale, tra le quali le due famigerate e inaccessibili province del Nord e Sud Waziristan) vennero infatti trasformate in una gigantesca piazzaforte del conflitto. Fiumi di soldi e armi affluirono per addestrare e armare i Mujaheddin afgani.
Gli americani e i loro fantocci pakistani sperarono che una volta cacciate le truppe sovietiche la guerriglia islamica sarebbe rientrata nei ranghi. Fatale errore. La rinascita islamica era infatti frutto di una spinta identitaria che era ben lungi dall’esaurirsi. Questa rinascita, per di più, si andava sposando con un fattore non meno importante, il risveglio nazionale dei popoli e delle tribù Pashtun, anzitutto appartenenti al ceppo Ghilzai (lo stesso ceppo da cui provenivano anche tutti i dirigenti della frazione Khalq della sinistra afgana, tra cui Afizullah Amin e lo stesso Najibullah).
Quando nel 1996 gli scolari islamici o Taliban scatenarono l’irresistibile offensiva per cacciare da Kabul l’Alleanza del Nord, essi partirono proprio dalle zone occidentali del Pakistan.
La stampa occidentale sembra stupirsi della rocciosa solidarietà che unisce le popolazioni tribali del Pakistan occidentale con quelle oltre frontiera. La realtà è che le frontiere tracciate dai colonialisti inglesi (Linea Durand) non hanno alcun senso, sono anzi arbitrarie dal momento che sono state pensate proprio per spezzare e dividere l’indomito popolo Pashtun, che è lo stesso, di qua e di la dalla frontiera. Chi si sia recato in Pakistan occidentale sa bene che la grande maggioranza della popolazione (esistono altre piccole minoranze linguistiche) è infatti di nazionalità Pashtun (più precisamente di ceppo Ghilzai) e di lingua Pashto, che nessuno da quelle parti si riferisce a queste zone come Province della Frontiera del Nord-Ovest, bensì come Afghania o direttamente come Pakhtunkhwa, ovvero Pashtunistan.
Quanto solida fosse la saldatura tra la rinascita etico-religiosa islamica e il risveglio nazionalista pashtun lo mostrerà appunto la tenace resistenza opposta all’invasione dell’Afghanistan dopo l’ottobre 2001. Una resistenza che se in Afghanistan dà filo da torcere alle truppe d’occupazione non è meno forte dall’altra parte della frontiera. I sentimenti antimperialisti e di solidarietà coi fratelli pashtun afghani (in alcuni casi membri delle medesime tribù) saranno confermati in maniera spettacolare nelle elezioni pakistane del 2008 quando nelle zone occidentali esse saranno stravinte dalla lista Muttahida Majlis-e-Shora (Consiglio Unitario d’Azione), una composita coalizione di cinque movimenti islamici radicali (tra cui anche pezzi della minoranza shiita) apertamente ostile all’attuale presidente Zardari.
Il quale Zardari, salito al potere l’anno scorso grazie all’appoggio essenziale degli Stati Uniti, non poteva tirarsi indietro davanti all’ultimatum postogli da Obama in occasione del recente incontro a Washington. O mostrava coi fatti di voler portare un’offensiva frontale per sradicare le forze islamiste pashtun, oppure non avrebbe ricevuto i lauti aiuti (2,5 miliardi di dollari) coi quali gli USA contribuiscono a tenere in piedi il traballante apparato statale pakistano. Detto fatto.
Appena tornato in Pakistan, mentre i droni americani maciullavano civili innocenti lungo tutta la frontiera con l’Afghanistan (il pretesto quello di colpire “…i rifugi di al-Qaida”, in verità l’obbiettivo è terrorizzare le tribù pashtun che danno man forte alla resistenza dei loro fratelli afghani), decine di migliaia di soldati pakistani, preceduti da bombardamenti a tappeto e dall’incessante martellamento dell’artiglieria pesante, avanzavano nella valle dello Swat, costringendo le milizie islamiche alla ritirata e causando un esodo biblico di centinaia di migliaia di civili verso sud ed ovest.
Un voltafaccia clamoroso quello del presidente Zardari, se solo si pensa che era solo il 13 aprile quando egli controfirmava in maniera solenne la tregua tra esercito e ribelli islamici ed entrata in vigore nella valle dello Swat il 26 febbraio dopo una mini-guerra civile che nel frattempo aveva fatto un migliaio di morti da ambo i lati.
Che l’attuale offensiva sia risolutiva, come detto sopra, noi non ci crediamo. Anche ammesso che Zardari riporti la pace cimiteriale nello Swat, i ribelli in fuga si ritireranno a dar man forte ai combattenti pashtun negli inespugnabili anfratti del Nord-Ovest e del Waziristan.
La partita, se davvero Zardari vuole condurla, è appena iniziata.
La posta in palio, come ha affermato il generale Petraeus in una recente intervista, è gigantesca. Non si tratta solo di “stabilizzare” l’Afghanistan, ma di salvare il Pakistan da una catastrofica implosione. Questo paese, come da noi già sostenuto, è infatti un assurdo geo-politico. Le due principali nazionalità che compongono il paese, i punjabi e i pashtun sono state tenute assieme dal collante identitario islamico. Questo ha funzionato egregiamente fino a quando esisteva la “minaccia” sovietica di cui l’India era un potente alleato regionale. Crollata l’URSS e una volta agganciata l’India nella sfera d’influenza nordamericana, il collante islamico si è rivelato insufficiente e il Pakistan è entrato in un periodo di fibrillazione permanente. L’occupazione dell’Afghanistan ha accentuato le linee di frattura geopolitiche nonché quelle interne al Pakistan. Se l’Islam è la fonte esclusiva di legittimazione del Pakistan come stato-nazione come dare torto a coloro che sostengono che una sconfitta delle Resistenze afghana e di quella kashmira sarebbe l’inizio della fine del Pakistan?
Non c’è bisogno di fingersi simpatizzanti delle forze islamiche pashtun per comprendere la legittimità di questa domanda. Con gli antimperialisti pakistani noi condanniamo infatti l’imposizione della Sharia nella valle dello Swat come in alcune delle province al confine con l’Afghanistan, al contempo, sempre con essi, difendiamo i militanti islamici quando combattono le forze regolari dell’esercito pakistano agli ordini del trio Obama-Petraeus-Zardari, o quando danno man forte alla Resistenza afghana attaccando le basi logistiche e i convogli USA-NATO nei dintorni di Peshawar o lungo il Kyber pass. E siccome siamo per il diritto di ogni popolo ad autodeterminarsi confessiamo che guardiamo con simpatia a quelle forze pashtun che rivendicano una loro nazione indipendente, poiché il Pakistan legato mani e piedi agli USA e obbligato a combattere la Resistenza afgana è oramai una prigione per il popolo pashtun, e non solo per quello.
A chi ci dicesse che sostenere questo diritto significherebbe de facto sostenere l’imposizione della sharia o del Pashtunwali (l’antico codice etico d’onore che vige tra le popolazioni pashtun) rispondiamo con Lenin che la lotta politica non rassomiglia all’aritmetica quanto piuttosto all’algebra, che il peso o il segno di ogni evento sociale non può essere compreso se non nel contesto composto da un insieme di fattori, in un quadro storico e internazionale. La Resistenza pashtun in Afghanistan e Pakistan ha una duplice natura, essa è al contempo progressiva e reazionaria. È progressiva perché combatte il nemico principale di tutti i popoli oppressi, l’imperialismo americano e occidentale. E’ reazionaria perché immagina l’emancipazione come inveramento di uno stato teocratico islamico integrale. Se non si deve dimenticare il suo lato passatista, sarebbe ancor più sbagliato non sostenere la Resistenza popolare antimperialista a causa delle sue tendenze sociali oscurantistiche. Il dato da cui non si può prescindere è che una sconfitta degli eserciti d’occupazione in Afghanistan e del suo alleato pakistano (tenendo anche conto che essa non sarebbe automaticamente una vittoria talibana dato che il fronte della Resistenza è ben più composito e variegato di quanto la propaganda criminalizzatrice occidentale vorrebbe far credere) sarebbe una vittoria per tutti i popoli oppressi, da quello palestinese ai latinoamericani e africani, e alle nazioni che gli USA considerano “stati canaglia”. Una simile vittoria darebbe infine una spinta alle stesse resistenze sociali e politiche nelle roccaforti imperialiste.
Progressisti e pacifisti storceranno il naso, ma un simile esito a noi non pare affatto poca cosa. Sarebbe anzi il segnale di una storica inversione di tendenza.