La minaccia di un attacco su grande scala all’Iran, la resistenza irachena e il movimento contro la guerra
Che il conto alla rovescia che ci separa dall’aggressione americana all’Iran sia ormai iniziato, sono in pochi ormai a negarlo. Quello del pericolo che l’Iran si doti della bomba atomica non ਠun casus belli non meno pretestuoso di quello delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein o dei suoi legami con Al Qaida. Che questo sia il motivo dell’attacco si puಠdarla a bere ai lettori creduloni dei giornali di regime. Governanti, diplomatici, specialisti di politica estera sanno bene che la vera causa ਠnella geopolitica nordamericana, che non puo’ tollerare in Medio Oriente un regime ostile, nà© tantomeno che questo diventi la principale potenza regionale mettendo a repentaglio i già traballanti assetti imperialistici. L’abbattimento della Repubblica islamica iraniana ਠun obbiettivo strategico degli USA, sin dal 1979. L’occupazione dell’Afganistan e dell’Iraq, la insidiosa penetrazione in Asia centrale e nel Caucaso, il riarmo incessante dei regimi arabi del Golfo; sono tutte tappe di una strategia globale che vede gli Stati Uniti protesi a raggiungere un duplice obbiettivo: da una parte il controllo dei pozzi e delle rotte per mezzo delle quali il petrolio raggiunge il mercato mondiale, dall’altra l’annientamento definitivo di ogni eventuale roccaforte in cui si annidino i suoi nemici.
Gli Stati uniti hanno sperato di riconquistare l’Iran nella propria sfera d’infuenza con mezzi pacifici. La clamorosa sconfitta dei cosiddetti riformisti nelle elezioni del giugno 2005 e la inattesa vittoria di Ahmadinejad, referente degli ambienti nazionalisti radicali, ha letteralmente scombussolato i piani americani. Questi, spiazzati dai risultati elettorali, attesero un paio di settimane prima di prendere una posizione ufficiale, che fu di netta ostilità al nuovo arrivato. L’Iran venne bollato come “Stato canaglia” e lo stesso Ahamadinejad accusato di aver fatto parte del gruppo che occupಠnel 1979 l’ambasciata USA a Tehran, con tanto di minaccia di portarlo davanti ad una corte americana. Trovando un altro pretesto per l’aggressione Bush chiede adesso di inscrivere i Pasdaran (ovvero un corpo militare istituzionale) nella Black List dei gruppi terroristici.
Lo stesso Iraq, che Bush sperava diventasse un pasto appetitoso da spartire in allegra compagnia, ਠinvece diventato un motivo di irriducibile discordia con Tehran. Il baratto bushiano, io ti tolgo di mezzo Saddam tu mi dai il semaforo verde per l’aggressione, ha da tempo smesso di funzionare. Gli inglesi e gli americani denunciano che non debbono far fronte solo alla Resistenza dei sunniti, ma pure a quella dei gruppi shiiiti radicali, non solo quello di Moqtada al-Sadr. In effetti, per quanto tra la Resistenza sunnita e le formazioni shiite antamericane e filoiraniane sia in corso una sorda lotta intestina (di cui una causa ਠla inaccettabile partecipazione tattica dei partiti filoiraniani nel dispositivo dell’occupazione), non v’ਠdubbio che soprattutto nell’ultimo anno i miliziani shiiti sono quelli che hanno inferto colpi letali alle truppe d’occupazione. Il fatto che gli inglesi siano costretti al ritiro da tutto l’Iraq meridionale la dice lunga. Cosଠcome che il movimento di Moqtada al-Sadr abbia abbandonato a se stesso il governo fantoccio di al-maliki. Dicono che oramai in Iraq ਠgià in atto una guerra per procura tra USA e Iran. Non abbiamo possibilità di confermare la veridicità dell’accusa NATo secondo cui nella provincia afgana di Farah sarebbe stato intercettato un convoglio di sofisticate armi proveniente dall’Iran e destinato alla guerriglia talibana. Se questo fosse vero ciಠਠl’indiscutibile indice che Tehran si prepara a far fronte all’aggressione, che gli iraniani non accetteranno di fare la fine della Iugoslavia, di crepare sotto gli attacchi aerei e missilistici americani (e israeliani?), e che potrebbero accettare la sfida allargando il conflitto e puntando a farlo diventare regionale.
In questa prospettiva apocalittica molte cose cambieranno in Medio Oriente. Molte cose cambieranno in tutto il mondo. Bush, prima di lasciare le consegne, vorrà spianare la strada al suo disegno del “Nuovo grande Medio Oriente”. Se cosଠfosse nਠla Siria, nà© il Libano nà© Israele potranno restare fuori dal ciclone. Non potranno restarne fuori le Resistenze (Iraq, Afganistan, Palestina, Libano), nà© i movimenti contro la guerra in Europa e nel resto del pianeta. Le Resistenze, quella irachena anzitutto, saranno costrette a prendere atto che le divisioni e i conflitti fratricidi sono ad esclusivo vantaggio dell’Impero, dovranno trovare la strada di una conciliazione e di una unità d’azione. I movimenti contro la guerra. Inabissatisi dopo l’occupazione dell’Iraq saranno snidati, obbligati a tirar fuori la testa (e ad usarla meglio). Non avremo le stesse fiumane di gente per le strade, ma certo movimenti più maturi e consapevoli, speriamo privati delle illusioni pacifiste e più decisi nel sostenere chi, dentro la guerra, rischia la pelle combattendo l’aggressione imperialista.
L’inizio del 2008 sarà dunque segnato nuovamente dall’irrompere della guerra nella stagnante agenda politica italiana. Nessun movimento potra’ esimersi dal prendere una posizione, dallo scendere in campo. Da questa angolatura ਠevidente come il movimento contro il raddoppio della base americana a Vicenza ci indicherà la cifrà del movimento che gli salirà sulle spalle. Il Movimento contro il Dal Molin fungerà da anticamera di quello contro la guerra. Sotto ogni profilo la battaglia contro la base americana ਠil banco di prova di quello che avverrà .