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A sei anni dall’inizio

8. January 2008
Documento approvato dall’assemblea nazionale
del Campo Antimperialista

Chianciano Terme, 4-5 gennaio 2008

Ad oltre sei anni dall’inizio della Guerra Infinita (o, se si preferisce, della Guerra Infinita Permanente) proclamata da Bush dopo l’11 settembre 2001, ma già  inscritta nei programmi dei neocons prima di quella data, ਠutile fare il punto, aggiornare l’analisi, cercare di individuare i possibili sviluppi di una strategia aggressiva che segna, e continuerà  a segnare, la nostra epoca.
Si tratta infatti di una strategia e di una politica che non appartiene soltanto alla “banda Bush”, oggi in palese crisi di consenso, ma all’intero establishment statunitense, diviso sui mezzi ma non sul fine da perseguire: quello del consolidamento del dominio americano nel mondo, cosଠcome si ਠaffermato dopo il 1945 ed ancor più dopo il 1989.
Lo sguardo su questi sei anni di inizio secolo non vuole perಠlimitarsi all’analisi dell’imperialismo Usa, che pure continua a dettare l’agenda del pianeta. La sua iniziativa ha prodotto infatti fratture, riallineamenti, e soprattutto resistenze che cercheremo di esaminare. Il progetto imperiale americano, dal quale la Casa Bianca ha preso le mosse, ਠcertamente un disegno planetario ma che ha un cuore ben preciso: il Medio Oriente. Dalla capacità  di ridisegnare effettivamente questo “tassello”, dipenderà  il suo successo o la sua sconfitta. La partita ਠaperta e non sarà  breve.
Cosଠcome abbiamo contrastato l’idea della “guerra breve”, cioਠdella vittoria facile in Iraq, idea particolarmente in voga tra i pacifisti nella primavera 2003, contrastiamo oggi l’idea infondata della fine della Guerra Infinita. Fine che verrebbe grosso modo sancita con le prossime elezioni presidenziali americane del novembre 2008.
I sostenitori di questa tesi vorrebbero archiviare le aggressioni di questi anni come incidenti attribuibili ad un particolare gruppo di potere, che alla fine si sarebbe oltretutto rivelato insipiente.
Non la pensiamo in questo modo. Per fortuna Bush ha incontrato sconfitte ed impantanamenti, peraltro frutto di forze generalmente oscurate (nella migliore delle ipotesi) da chi sostiene la tesi suddetta, ma l’imperialismo americano non solo non puಠaccettare la sconfitta ma neppure la sua tendenziale riduzione ad un ruolo quasi paritario in una nuova strutturazione policentrica del potere mondiale.
Se un nuovo policentrismo verrà  – ed ਠragionevole ipotizzare che prima o poi verrà  – esso potrà  sorgere solo da una fase tempestosa di cui siamo probabilmente solo agli inizi.
Il problema che abbiamo non ਠdunque quello di immaginare rapidi cambi di scena, ma piuttosto quello ben più concreto di cercare di individuare le nuove linee di sviluppo di una sorta di “fase 2” della Guerra Infinita. Naturalmente questa operazione la faranno assai meglio gli storici tra qualche decennio…
Noi siamo semplicemente chiamati oggi all’analisi politica, all’individuazione delle tendenze principali, alla formulazione delle ipotesi e dei possibili scenari. Operazione non semplice, che mette necessariamente nel conto approssimazioni ed errori, ma assolutamente indispensabile per poter orientare l’azione nel prossimo futuro.

1. Sei anni più complicati del previsto

Sei anni fa, il 7 ottobre 2001, iniziava l’attacco all’Afghanistan. La conquista di Kabul fu assai rapida, grazie all’intesa raggiunta con l'”Alleanza del Nord” che si incaricಠdell’azione terrestre. A qualcuno sembrಠun’altra Jugoslavia, un altro successo a prezzo zero dell’unica ed indiscussa superpotenza rimasta.
Oggi, proprio da questa terra che ha visto il battesimo del fuoco di George W. Bush, arrivano notizie ben diverse. La Resistenza si ਠriorganizzata, il controllo del territorio da parte degli occupanti ਠscarso, le loro perdite aumentano. Si tratta, in tutta evidenza, di una guerra a bassa intensità , ma dove l’obiettivo della vittoria ਠsempre più lontano.

Se in Afghanistan le cose non sono andate troppo bene agli strateghi di Washington, in Iraq sono andate assai peggio, come oggi ammettono commentatori e militari nel frattempo pensionati. Costoro non criticano la scelta dell’invasione dell’Iraq, ma semplicemente la sua gestione. Come noto, la vittoria ha molti padri mentre la sconfitta non ਠdi nessuno….
Sta di fatto che in Iraq gli Stati uniti avevano clamorosamente sbagliato l’analisi sulla possibilità  che si sviluppasse una forte resistenza popolare. Una certa resistenza era prevista, ma veniva concepita come un fenomeno residuale, come l’ultimo respiro del potere baathista in rotta. E’ per questa ragione che la cattura di Saddam Hussein (dicembre 2003) venne effettivamente vissuta come un evento decisivo.
Sappiamo oggi, al contrario, che la Resistenza prese nuovo vigore proprio agli inizi del 2004, quando più vicino apparve l’obiettivo di una sua unificazione interconfessionale. Successivamente le cose presero un’altra strada (di questo ci occuperemo in un punto specifico), ma le difficoltà  degli occupanti sono via via cresciute.
A nulla ਠservita la strage di Falluja (novembre 2004), 30-50mila vittime incenerite affinchà© il terrore potesse impadronirsi di un intero popolo annichilendolo; a nulla sono servite le torture che hanno fatto di Abu Ghraib uno dei simboli della barbarie imperialista del ventunesimo secolo; a nulla sono valse le elezioni del gennaio e dicembre 2005, che alla fine (nonostante brogli evidentissimi) hanno visto la sconfitta di Allawi, l’uomo su cui puntavano gli americani.
Dopo questi insuccessi gli Usa hanno scommesso sulla guerra civile, e con l’attentato alla moschea di Samarra (febbraio 2006) hanno ottenuto quel che speravano: una sorta di libanizzazione dell’Iraq come base materiale per la sua spartizione. Questa tattica del “tanto peggio, tanto meglio” ha dato i suoi frutti impedendo un processo unitario delle forze della resistenza, che spesso hanno preso a scontrarsi tra loro. Ma questa situazione – che consente agli Usa di prendere tempo – ਠcomunque cosa ben diversa dalla vittoria.

L’attacco israeliano al Libano, ed in particolare alle strutture di Hezbollah, del luglio-agosto 2006 ਠstato anch’esso un episodio della Guerra Infinita in corso. Il fatto che questo attacco sia partito da Israele non cambia la sostanza: tutti sanno che lo stato sionista ਠl’avamposto dell’occidente e degli Usa in Medio Oriente.
Anche in questo caso le cose sono andate storte agli aggressori. Ed anche questa ਠuna novità , visti i precedenti storici a partire dall’occupazione israeliana del Libano del 1982.
La Resistenza nazionale libanese, diretta da Hezbollah, ha fermato i soldati di Tsahal ben a sud del fiume Litani ed il governo Olmert ha dovuto ammettere di aver fallito i principali obiettivi politico-militari dell’offensiva.
Come risposta all’insuccesso militare ਠstata messa in piedi la spedizione Onu (in realtà  Nato) che dal settembre dello scorso anno presidia il sud Libano, una spedizione costituita principalmente da truppe italiane e francesi con lo scopo di tenere sotto costante pressione sia la resistenza libanese, che la Siria ed in un certo senso lo stesso Iran.

In Palestina, la Guerra Infinita si ਠtradotta nel tentativo di cancellare la resistenza, da un lato con l’ossessiva pressione militare israeliana, dall’altro con la corruzione dei vertici di al-Fatah. Anche questo tentativo ha avuto successo solo parzialmente. La vittoria di Hamas nelle elezioni del gennaio 2006 ha infatti evidenziato la volontà  popolare di non arrendersi al destino di una segregazione razziale negoziata. Anche qui, come altrove, nonostante il foraggiamento dell’ala collaborazionista di Abu Mazen, i giochi sono aperti.

Se questi sono stati i principali fronti caldi della Guerra Infinita, non vanno dimenticati altri teatri di guerra: dall’invasione della Somalia da parte di truppe etiopiche, con il palese sostegno americano, alla guerra combattuta in Pakistan dal regime di Musharraf contro una parte del suo stesso popolo.
Questi fronti, solitamente ritenuti “secondari”, sono invece parte integrante dell’offensiva a tutto campo scatenata dagli Usa.

In generale possiamo dunque dire che in ogni luogo dove si ਠdeterminata la loro aggressione gli imperialisti hanno mancato la vittoria, ovunque si sono sviluppate varie forme di resistenza. Resistenze ancora incapaci di vincere, ma già  sufficienti ad impantanare la più potente macchina da guerra della storia.
Questa situazione di stallo ਠla caratteristica principale fotografabile in questo momento (inizio dicembre 2007), mentre si intravedono all’orizzonte nuove linee di attacco, in particolare verso l’Iran.

2. Guerra di civiltà 

La Guerra Infinita non ਠsolo guerra per eserciti.
Una guerra infinita non sarebbe nà© concepibile, nà© tanto meno proponibile, se non riuscisse ad ammantarsi di “nobili” scopi di civilizzazione, democratizzazione, eccetera.
Da questo punto di vista niente di nuovo sotto il sole. Quel che ਠnuovo ਠla potenza di fuoco prodotta da questa concezione totalitaria, che abbiamo definito – anche per quello che ha rappresentato fin dagli inizi del Novecento – americanismo.
All’alba del nuovo secolo questo termine ਠapparso ancora più pregnante, nel suo significato di volontà  egemonica, di modello sociale e culturale da imporre in parallelo alla rimondializzazione capitalistica che viaggia con le vele del liberismo più sfrenato.

In questo senso, “Guerra di civiltà ” non ਠl’espressione estremistica, fallaciana, del normale razzismo che si accompagna alle imprese imperialiste. E’ qualcosa di più. Ed ਠqualcosa di più non solo in virtù della sua giustificazione – la cosiddetta “guerra al terrorismo” – ma perchà© sottende una sorta di diritto divino, dal quale ਠinfatti scaturito un ben più concreto “diritto imperiale”, che ha già  riscritto de facto e de jure il diritto internazionale e quello dei singoli stati nazionali.
L’elenco ਠlunghissimo quanto noto: l'”Usa Patriot Act”, la costruzione di una rete di segrete Guantanamo sparse per il mondo, la legittimazione dell’uso della tortura, il progressivo allargamento della casistica inerente i reati associativi, il diritto ad intercettare ogni conversazione, le black list, le operazioni della Cia con la copertura dei governi interessati (vedi il caso del sequestro di Abu Omar), il diritto americano a disporre a piacimento dello spazio.
Questi punti, volutamente elencati un po’ alla rinfusa, danno il senso di quanta strada abbia fatto quello che abbiamo chiamato “nuovo diritto imperiale”.

Un “diritto” che in Europa non avrebbe potuto affermarsi senza la complicità  di una cultura e di un sistema informativo ormai largamente americanizzati.
Sintomatico di questo allineamento servile ਠproprio il concetto di “terrorismo”, che viene accettato e rilanciato senza alcuna attenzione critica all’utilizzo improprio che ne viene fatto. C’ਠpoco da fare, comunque la si voglia rigirare i “terroristi” di oggi sono i “banditen” di ieri, con l’enorme differenza che questi ultimi erano tali solo per una parte minoritaria dell’occidente, mentre i primi sono etichettati in questo modo dall’occidente all’unisono.
Questa vittoria semantica dell’imperialismo non ਠuna piccola cosa. E’ invece il segno dell’affermazione di un pensiero unico totalitario ed in definitiva razzista.

Questa deriva dell’occidente si traduce in particolare nell’islamofobia, la forma più concreta e diffusa del razzismo nella nostra epoca. Un razzismo che investe tutti i paesi occidentali e che in Italia presenta tutte le possibili variabili: da quella estrema di certi settori della destra e della Lega, a quella di matrice securitaria, fino a quella “politicamente corretta” e di “sinistra” che vorrebbe l’integrazione con ogni mezzo (inclusa una Consulta costitutivamente discriminatoria).

3. Cosa ਠcambiato?

Sei anni di Guerra Infinita hanno cambiato molte cose.
Sono stati 6 anni di aggressioni militari da parte dell’imperialismo, di resistenze che hanno dovuto adattarsi alla guerra asimmetrica dimostrando che la si puಠcombattere con successo, di scontri prolungati a bassa intensità , di iniziative coperte, di un’offensiva prolungata e largamente vincente nei campi del diritto e della cultura.

I soggetti fondamentali di questo scontro – l’imperialismo americano da un lato, le resistenze popolari dall’altro – hanno subito evoluzioni e cambiamenti significativi che ਠutile analizzare.
Al tempo stesso ਠcambiato l’assetto delle alleanze costruite attorno agli Usa, cosଠcome ਠcambiato il ruolo delle altre potenze in gioco (essenzialmente Russia e Cina).
Si tratta di cambiamenti che non stravolgono la fisionomia dello scontro, ma che possono indicarne alcuni possibili sviluppi.

4. Il centro del sistema

Se l’11 settembre aveva scosso il mito americano dell’invulnerabilità , 6 anni di Guerra Infinita hanno profondamente incrinato quello dell’invincibilità .
A tratti, nei palazzi di Washington, sembra riaffacciarsi quella che fu definita “Sindrome del Vietnam”. Attenzione, le analogie possono portare assai spesso fuori strada. Ed in questo caso specifico ci sono almeno tre osservazioni da fare. In primo luogo quella subita in Vietnam fu una vera sconfitta politico-militare, mentre quella attuale ਠuna situazione di stallo frutto di un progressivo impantanamento. La cosa, dal punto di vista degli strateghi imperiali, non ਠmeno grave, ma ਠdiversa. Anche perchà©, seconda osservazione, il Vietnam (e più in generale l’Indocina) era sଠimportante nel quadro del conflitto con Mosca, ma rappresentava pur sempre un punto circoscritto, mentre oggi l’offensiva lanciata dalla Casa Bianca ਠper sua natura globale, per lo meno per quel che riguarda l’area definita non a caso “Grande Medio Oriente”. Sta di fatto, terza considerazione, che la lotta con il blocco sovietico non risentଠpiù di tanto delle vicende indocinesi, al punto che pochi anni dopo la disfatta del 1975, gli Stati Uniti furono in grado di rilanciare alla grande la sfida con gli euromissili ed il progetto di “scudo stellare”.
In Vietnam ammettendo la sconfitta gli Usa riuscirono a delimitarne se non la portata sicuramente le conseguenze. Oggi, oltretutto in una situazione che abbiamo già  definito di stallo, una ritirata avrebbe conseguenze ben più gravi. Inoltre, aspetto da non sottovalutare, essa ਠtanto più difficile quanto più si ਠvoluta caricare questa guerra di motivazioni ideologiche difficili da rimuovere.

Non c’ਠdubbio che l’establishment americano si stia attualmente interrogando sulla strada da prendere. Non c’ਠdubbio che vi siano su questo divisioni. Non potrebbe essere altrimenti viste le difficoltà  incontrate. Ma la discussione non ਠsul ruolo degli Usa su scala planetaria, che nessuno mette in discussione, ma sulla maniera di conservarlo nel migliore dei modi.
Anche un eventuale ritiro dall’Iraq, di cui pure si parla, sarebbe in realtà  parziale perchà© tutti sono d’accordo sulla permanenza in quel paese di alcune basi gigantesche con la presenza di 30-40mila soldati, secondo il noto “modello sudcoreano”.
Se di Sindrome del Vietnam ha senso parlare ਠdunque solo per evidenziare uno stato di shock seguito agli insuccessi sul campo. Per il resto l’analogia storica aiuta ben poco.

Chi usa questa terminologia immagina che, come avvenne allora ma solo per pochissimi anni (in pratica quelli della presidenza Carter), gli Usa siano indotti al passaggio verso l’esercizio del cosiddetto “soft power”. In pratica meno guerre e più diplomazia, minor unilateralismo se non proprio multilateralismo.
Altri, ad esempio nell’area antimperialista, immaginano che questo processo riporti tendenzialmente addirittura alla strutturazione classica dell’imperialismo dell’epoca di Lenin, una strutturazione caratterizzata cioਠin primo luogo dalla competizione tra vari centri imperialisti di potenza assimilabile.
Questa linea di tendenza scaturirebbe, per costoro, non solo dagli insuccessi politico-militari di questi anni, ma ancor di più da una crisi economica che si vorrebbe potenzialmente catastrofica proprio negli Stati uniti.

Non siamo d’accordo. Quali che siano gli sviluppi della politica americana, alcuni punti sono fermi: la volontà  di conservare la posizione di dominio planetario accomuna tanto i Democratici che i Repubblicani. E chiunque sarà  il prossimo presidente possiamo essere certi che continuerà  a perseguire l’obiettivo del “Nuovo Medio Oriente”. Quello che invece potrà  cambiare saranno i mezzi per raggiungere questi risultati. Come potranno cambiare in parte le alleanze, ma di questo parleremo diffusamente più avanti.

Il punto che occorre aver chiaro ਠche la condizione dell’impero americano ਠancora di netta supremazia rispetto ai possibili competitori. E’ una supremazia politica, militare, ma anche economica e culturale.
Il centro del sistema ਠancora a Washington e sarà  cosà¬, realisticamente, ancora per un periodo non breve. In questo senso abbiamo definito gli imperialismi europei come sub-imperialismi sottostanti ad un centro che agisce – dettando di fatto i ritmi del pianeta – come super-imperialismo.
Questa strutturazione gerarchica del blocco imperialista a guida Usa ci sembra fuori discussione e per certi aspetti (pensiamo alla Francia) si ਠperfino rafforzata.
Il simbolo più evidente di questa strutturazione ਠrappresentato dalla rete di basi militari a stelle e strisce che avvolge il mondo intero, concentrandosi nelle zone strategicamente più rilevanti. Una rete che va ulteriormente ampliandosi, dall’Iraq a Vicenza giusto per avere un’idea.

5. Da una guerra americana in nome dell’Occidente, ad una guerra dell’Occidente a guida americana?

Questo non significa che non stia cambiando niente.
Il cambiamento principale, legato anche ad un ruolo più attivo sia della Cina che della Russia, sta in un rapporto più organico con i tradizionali alleati europei. Alcuni fatti sono già  osservabili: dal maggior coinvolgimento della Nato in Afghanistan, all’appalto concesso a Francia ed Italia in Libano, alla stessa gestione della questione iraniana.
Questo cambiamento, che implica conseguenze di grande portata, consiste nel passaggio (non ancora definitivamente compiuto, ma da tempo in atto) da una guerra americana condotta in nome dell’occidente, ad una guerra dell’occidente a guida americana.

In questo passaggio la guerra resta e la sua direzione strategica rimane la stessa. Cambiano perಠalcune cose. Prendiamo ad esempio il caso iracheno: nel 2003 gli Usa si mossero come un rullo compressore, spesso stridendo con alcuni dei più importanti alleati recalcitranti, allora identificabili soprattutto nell’asse Chirac-Schroeder. L’amministrazione Bush cercಠdi giocare la carta della risoluzione Onu, ma quando fu evidente che ciಠnon sarebbe stato possibile decise di agire ugualmente, tirandosi dietro i cosiddetti “volonterosi” della “nuova” Europa, contrapposta a quella vecchia e rammollita rappresentata dall’asse di cui sopra.
Proviamo invece ad immaginare cosa potrà  succedere oggi nel caso, che reputiamo assai probabile, di un attacco all’Iran.
Oggi possiamo tranquillamente scommettere su un forte coinvolgimento dei principali paesi europei in questa avventura militare. Il grado di coinvolgimento, politico e militare, di ciascun paese sarà  determinato da tanti fattori, ma quel che ਠcerto ਠche non si intravede la possibilità  che si ripeta il frastagliamento europeo del 2003.
L’Europa sembra oggi ritrovare una sua unità , ma non certo nel segno di una maggiore autonomia. Al contrario, ਠproprio la sconfitta delle aspirazioni di potenza, determinata anche dall’iniziativa americana nel periodo 1999-2003, ad aver ricondotto l’Europa ad una unità  subalterna. Questo arretramento non ha soltanto una base politica (la crisi del processo di unificazione emblematizzato dallo stop alla Costituzione europea). Ne ha anche una culturale, che consiste nel rapido procedere dell’americanizzazione delle società  europee.

Di fronte agli insuccessi militari, gli Usa possono infatti mettere a positivo nel loro bilancio la vittoria sul terreno dell’egemonia culturale in occidente, il che non ਠpoca cosa.
Il viaggio negli Usa del presidente francese, l'”americano” Sarkozy, che ha di fatto vantato l’avvenuta americanizzazione del suo paese, ਠl’istantanea che più efficacemente descrive il nuovo scenario.

Un caso che conferma questo quadro ਠquello del nuovo scudo missilistico che gli Usa vogliono installare in Europa. Questo “scudo” ha palesemente una funzione antirussa e rischia di peggiorare i rapporti tra Unione Europea e Mosca. Ebbene, pur sapendo quali rischi ciಠpuಠcomportare anche a danno dei rapporti commerciali esistenti, l’Europa si ਠschierata con Washington confermando che – riposte nel cassetto le velleità  di potenza seguite al 1989 ed a Maastricht – il Vecchio Continente si ਠormai acconciato ad un ruolo subalterno pur di stare in qualche modo a galla. Insomma, servi sଠma dei più forti.

Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, una guerra più “condivisa”, non diventerebbe nà© una guerra Onu (impossibile, visto soprattutto l’irrigidimento russo) nà© una guerra meno ideologica.
Al contrario, quel che dobbiamo aspettarci ਠinvece proprio un’enfatizzazione degli aspetti ideologici: “diritti umani”, “democrazia”, “impedire un “nuovo olocausto”, eccetera.

6. Meno Onu, più Nato

Se la guerra diventa un po’ meno americana e un po’ più occidentale ਠinevitabile che cresca di conseguenza il ruolo della Nato.
Come sappiamo i compiti globali di questa alleanza politico-militare vennero ridefiniti nell’aprile 1999, in piena aggressione alla Jugoslavia, con un vertice presieduto da Clinton cui prese parte per l’Italia l’allora primo ministro Massimo D’Alema.
Nel pieno della guerra Nato si trasferଠsulla carta quello che già  si era affermato con le bombe: alla Nato – che intanto si espandeva sempre più verso est – si assegnava un ruolo globale, facendo definitivamente cadere la foglia di fico della pretesa “alleanza difensiva” sbandierata durante la Guerra Fredda.
E’ chiaro che oggi, dopo gli assaggi afghani e libanesi (dove alle risoluzioni Onu, corrispondono contingenti sostanzialmente Nato), e messe tra parentesi le modalità  un po’ avventate dell’attacco all’Iraq, la Nato tende a presentarsi come l'”Onu dell’Occidente”. Un’organizzazione cioਠche mira ad essere il corrispettivo militare della cosiddetta “comunità  internazionale”.
Naturalmente gli Usa, in virtù del loro ruolo centrale, prediligono alleanze a geometria variabile a seconda delle circostanze. Questo implica un ruolo un po’ discontinuo della Nato, ma in tendenza sicuramente crescente.
Al tempo stesso ਠprevedibile che il ruolo dell’Onu declini ancor più vistosamente di quanto già  avvenuto fino ad oggi.

7. Le Resistenze

Se per la potenza centrale 6 anni di guerra hanno cambiato diverse cose, cosa ਠsuccesso dall’altra parte del fronte? Qui il cambiamento ਠstato assai più radicale, dato che sei anni fa la resistenza era solo una possibilità  mentre oggi ਠun’inconfutabile realtà .
Naturalmente il potere imperiale vorrebbe continuare a negare questa evidenza, ma al di là  della propaganda i dati di fatto parlano chiaro. Se impantanamento c’ਠstato, come tutti riconoscono, dovrà  pur esistere il soggetto (variegato quanto si vuole) che l’ha prodotto!

Lasciamo dunque da parte la propaganda imperialista e occupiamoci dei fatti.
La resistenza al progetto di un Medio Oriente a stelle e strisce ਠsotto gli occhi di tutti. Iraq, Afghanistan, Libano e Palestina ce lo dicono a chiare lettere.
Queste resistenze, pur cosଠdiverse tra loro, hanno avuto la capacità  di adattarsi alla guerra asimmetrica, di saper raccogliere la sfida lanciata da un nemico tremendo, ipertecnologizzato, coperto e facilitato nella sua spietatezza da un sistema (dis)informativo senza precedenti. Esse hanno avuto anche il merito non secondario di sapersi organizzare nonostante l’assenza di retrovie e di sostegni internazionali adeguati.

Il salto di qualità  compiuto dalle Resistenze ਠ– sul piano generale – la novità  più importante di questi anni. Chi ricorda la prima guerra all’Iraq (1991) e quella già  rammentata alla Jugoslavia (1999) ben comprende la portata di questa novità . L’imperialismo Usa mantiene la sua netta supremazia, la possibilità  di fare guerra a chiunque, ma non puಠpiù permettersi di farlo senza pagare un prezzo: questa ਠla novità , sulla quale scommettemmo in particolare nel 2003.

Parliamo di Resistenze e non di “Resistenza”, perchà© sarebbe un grave errore non vederne la pluralità  ed i conflitti interni. In Iraq, Afghanistan, Libano e Palestina – per limitarci ai quattro fronti più caldi – ogni resistenza nazionale affonda le proprie radici negli interessi e nelle identità  aggredite, ma questo elemento comune per giunta contrapposto ad un unico nemico comune non ਠancora sufficiente a costruire l’embrione di un futuro fronte comune.
Nella stessa Conferenza di Chianciano abbiamo toccato con mano la portata di questi conflitti. Dalla capacità  di affrontarli e risolverli dipenderà  il futuro delle Resistenze, non solo in Medio Oriente.

8. La seconda linea

C’ਠinfatti, oltre alla prima linea mediorientale, una seconda linea che non dobbiamo trascurare. Si tratta dell’America Latina, di quella meridionale in particolare.
L’affermazione dello chavismo in Venezuela mostra di poter produrre effetti di lungo periodo ben più ampi di quelli inizialmente pronosticati. Per la verità , gli antimperialisti furono i primi a capire le potenzialità  degli eventi venezuelani, quando ancora la sinistra movimentista e “comunista” metteva in primo piano i distinguo e ancor di più le aperte critiche di populismo, autoritarismo, caudillismo.
Grande fu la sorpresa quando nel 2002-2003 Chavez resse prima ad un colpo di stato e poi al blocco prolungato della produzione petrolifera: due azioni ispirate direttamente da Washington ed entrambe risoltesi con un insuccesso.

La forza di Chavez si spiega non solo grazie all’ampio consenso di massa ma anzitutto con il controllo che esercita sulle Forze armate. Questi due fattori gli permettono di seguire una politica interna orientata a modificare in senso socialista la struttura sociale del Venezuela, e una politica estera tesa a consolidare le relazioni con tutti i paesi che a vario titolo tentano di sganciarsi dalla tutela imperialista, anzitutto nordamericana. Il giudizio positivo che dobbiamo dare dello chavismo non ci impedisce tuttavia di segnalare le difficoltà  e la contraddittorietà  della politica della direzione bolivariana. Non siamo tra coloro che fanno spallucce davanti al “populismo” di Chavez, che ha mostrato tra l’altro una sua capacita di espansione ad altri paesi dell’area, come la Bolivia, il Nicaragua e l’Ecuador.
Del resto, in presenza di una “rivoluzione passiva” (ovvero di un consenso ideologico ottenuto non grazie all’irruzione rivoluzionaria delle masse ma a successive vittorie elettorali), il suo tentativo di stimolare dall’alto la nascita di un effettivo potere democratico popolare à¨, sotto ogni profilo, una via obbligata per evitare un prematuro scontro frontale con la controrivoluzione.

Questo scontro, se come ci auguriamo le forze rivoluzionarie non faranno marcia indietro, sarà  inevitabile. E’ uno storico dato di fatto che una trasformazione socialista della società  non ਠmai stata possibile rispettando le compatibilità  della democrazia liberale (tanto più se per mezzo di plebisciti), senza abbattere lo Stato oligarchico e capitalista – il quale non e’ fatto solo delle sue bande armate, ma si compone di tutti quei proteiformi organismi dirigenti che hanno le loro radici nella stessa società  civile.
In secondo luogo va detto che il poderoso sforzo di stimolare dall’alto la nascita di un potere popolare ਠil tallone d’Achille del bolivarismo. Il caudillismo ਠinfatti un limite del bolivarismo. Il fatto che questo discenda più dalla immaturità  del movimento popolare (dalla sua incapacità  a secernere un autentico potere rivoluzionario dal basso), che da caratteristiche congenite e patogene dello chavismo, non puಠesimerci dal contestare il sistema che sarebbe emerso dalle modifiche alla Costituzione sottoposte a referendum il 2 dicembre. La reazione ha purtroppo vinto questo decisivo referendum, tuttavia non ci trova concordi l’instabile miscuglio che sarebbe emerso tra un municipalismo spinto e l’aumento delle prerogative e dei poteri del presidente.

Preoccupanti sono anche i limiti della politica antimperialista della direzione venezuelana. Il sostegno alle Resistenze antimperialiste ha un carattere più declamatorio che effettivo. Che il governo venezuelano stringa relazioni con regimi messi all’indice dagli americani (tra cui Cuba, l’Iran, il Sudan, ecc.) ਠbuonissima cosa, mentre per niente positivo ਠche il movimento bolivariano venezuelano non abbia fatto alcun tentativo di allacciare relazioni politiche o anche semplicemente di fornire un qualche fattivo appoggio alle Resistenze, in primis quella palestinese e irachena. L’appello al fronte unito antimperialista ਠpurtroppo restato sulla carta, con la conseguente attitudine ad intrattenere relazioni di collaborazione con le più disparate tendenze della sinistra occidentale, spesso complici dell’offensiva imperialista. D’altra parte, per quanto attiene alle relazioni con i paesi messi all’indice da Bush, Chavez non ha ancora osato nemmeno evocare l’idea strategica dello sganciamento, ovvero della confederazione degli Stati che non vogliono più sottostare alla tutela imperialista, limitandosi a invocare un cartello indipendente dei paesi produttori di petrolio.

Ciಠnon toglie che sia grazie soprattutto al movimento bolivariano se il vento anti-Usa investe l’intero continente, anche se contenuto dal ruolo del Brasile di Lula, altro esempio di dirigente di “sinistra” rapidamente convertitosi alle ricette liberiste delle istituzioni finanziarie internazionali.
Il Sud America, nel suo insieme, rappresenta dunque una seconda linea, un fronte dove – a differenza del primo – non si spara, ma dove tuttavia si gioca una partita di primissimo piano. Un’area dove le resistenze popolari al liberismo sono forti più che altrove, dove alcuni stati stanno provando a sganciarsi dal dominio nordamericano, dove sono presenti movimenti popolari di discreta ampiezza.
Senza dubbio questo processo di sganciamento ਠstato reso possibile dalla necessità  della superpotenza di concentrasi sul Medio Oriente. Il legame tra primo e secondo fronte non ਠdunque soltanto ideale, ma ਠanche e soprattutto materiale.

9. I problemi irrisolti

La resistenza popolare antimperialista ਠdunque un soggetto fondamentale della nostra epoca. Per l’esattezza, ਠil soggetto che regge ancora concretamente le speranze di trasformazione sociale e di giustizia. E’ il soggetto che tiene aperta la strada che potrà  condurre all’apertura di future finestre rivoluzionarie.
Proprio per questa funzione, non accidentale, n੠meramente congiunturale dato che il capitalismo contemporaneo si presenta concretamente come capitalismo imperialista, la resistenza (di fatto le resistenze) sono il punto di riferimento da cui ਠimpossibile prescindere.

Proprio perchà© questa ਠla nostra stella polare, ਠnecessario esaminare – sia pure sommariamente – i problemi irrisolti delle resistenze. Come ਠnaturale che sia vi sono problemi interni ad ogni resistenza nazionale e problemi nei rapporti tra le varie resistenze nazionali.

Vediamoli in breve.
Il primo problema, la cui evidenza ਠsolare, ਠla perdurante efficacia della politica imperialista del “divide et impera”. Questa politica ha ottenuto grandi risultati in Iraq (caso che esamineremo in maniera specifica, data la sua rilevanza) ed in Palestina. L’imperialismo in questo ਠduttile e spregiudicato. Sa usare tutte le possibili linee di frattura del potenziale fronte resistente, siano esse di natura religiosa, etnica, storica. Sa giocare ogni piccolo interesse economico e quando anche questo non basta ricorre alla corruzione spicciola.
Si dirà , giustamente, niente di nuovo sotto il sole.
Il problema perಠਠoggi più grave, perchà© manca alle resistenze un collante capace di ridurre il danno che la politica imperiale di divisione sempre inevitabilmente genera.

Nel caso del Medio Oriente c’ਠun elemento in più a favore dell’imperialismo. Si tratta delle cosiddette “frontiere maledette”, in larga misura lascito del colonialismo occidentale. Se uno stato dell’area ne chiede il superamento in virtù della loro assurdità  storica (ਠil caso dell’iniziativa – peraltro politicamente improvvida – di Saddam Hussein nel 1990 nei confronti del Kuwait) questo diventa un casus belli che ne giustifica l’aggressione. La stessa cosa se lo chiede un popolo (qui il caso più eclatante ਠquello curdo). Se invece questa materia esplosiva passa nelle mani dell’imperialismo, essa diventa di fatto un potente elemento di divisione dei popoli sottoposti al giogo imperiale. Ed anche in questo caso l’esempio più evidente ਠquello curdo, per cui abbiamo un’entità  quasi statuale curdo-irachena strettamente legata agli Usa nel medesimo momento in cui la Turchia, cioਠun altro paese strettamente legato a Washington, si arroga il diritto di attaccare i militanti curdi del Pkk perfino in territorio iracheno. E non ਠfinita, visto l’uso che ci si appresta a fare dei curdi iraniani nella prospettiva di un attacco all’Iran.

La politica del “divide et impera” riesce dunque ad agire spesso come potente elemento di divisione all’interno delle resistenze nazionali, se non addirittura all’interno degli stessi popoli.
Vediamo ogni giorno come vengono utilizzate le linee di frattura religiose, di cui quella tra sciiti e sunniti (al di là  delle grossolane semplificazioni che spesso i media propongono) ਠsenza dubbio la più importante. Questo problema ਠreso più delicato dal ruolo regionale dell’Iran, considerato come potenza sciita, ed ਠalla base delle profonde diffidenze esistenti tra la resistenza irachena e quella libanese.

Il secondo problema irrisolto delle resistenze ਠquello dell’inesistenza di vere retrovie, di paesi in qualche modo disponibili a sostenerne la causa. Con l’eccezione di Hezbollah, che ha un consistente appoggio da Teheran e da Damasco, questa ਠla situazione.
Si tratta di una differenza gigantesca rispetto all’epoca delle lotte anticoloniali, che potevano perlomeno contare sul ruolo dell’Urss e del movimento dei paesi non allineati.
Nel breve periodo questa situazione non appare facilmente modificabile. E’ vero che Iran e Siria, conducendo una loro partita regionale, consentono un qualche appoggio a questa o a quella formazione resistente, ma nulla di tutto ciಠਠparagonabile alla situazione di mezzo secolo fa. Un segno, anche questo, del carattere monopolare ed egemonico dell’attuale strutturazione imperialistica mondiale.

Il terzo problema ਠquello del passaggio da resistenze nazionali a resistenze antimperialiste. Il passaggio cioਠdall’oggettività  (la necessità  di resistere alle aggressioni) alla coscienza (la consapevolezza di essere inseriti in uno scontro globale dal quale dipenderà  in larga misura il futuro dell’umanità ).
Naturalmente, ogni resistenza popolare ਠnei fatti antimperialista e come tale va appoggiata. Ma la condizione per una piena autonomia strategica, per sfuggire cioਠal gioco della frantumazione condotto dall’imperialismo ਠl’assunzione di una prospettiva di liberazione più ampia. Anche se sarebbe oggi sbagliato fare appello ad un generico – e perciಠvuoto – internazionalismo, il problema del raccordo tra la dimensione nazionale e lo scontro più complessivo ਠuno dei nodi irrisolti maggiormente foriero di pericoli.
Basti pensare, ad esempio, cosa potrà  comportare nel campo della Resistenza irachena l’eventuale attacco all’Iran.

Da tempo avvertiamo la necessità  di un fronte antimperialista mondiale. Qualche tempo fa questa stessa esigenza ਠstata posta da Hugo Chavez, ma senza che ne siano seguite iniziative politiche concrete. In realtà  dobbiamo registrare uno stallo di questo processo, che forse potrà  prendere forma solo quando una pluralità  di soggetti comincerà  a muoversi con convinzione in questa direzione.

10. Il caso iracheno

La Resistenza irachena non ਠuna tra le tante. E’ quella che insieme all’Intifada palestinese ha dato il segnale decisivo della lotta, che ha provato con i fatti che resistere era possibile anche contro un nemico cosଠpotente. Se c’ਠstato un punto di svolta nella Guerra Infinita, questo punto ਠrappresentato proprio dall’emergere della resistenza popolare in Iraq. Del resto ਠproprio in questo paese che gli Usa hanno accusato la difficoltà  più pesante. Ma al tempo stesso ਠproprio qui che la resistenza manifesta oggi tutte le sue difficoltà .

Dopo una prima fase di lotta, che ha visto un ruolo centrale dell’area baathista intesa in senso lato, si ਠavviato un processo di islamizzazione tanto nell’ambito sunnita che in quello sciita.
Le formazioni combattenti che si oppongono agli occupanti sono cresciute nel tempo e cosଠi loro effettivi. A dispetto di questa crescita le divisioni si sono fatte via via più pesanti. Fallito il tentativo di costruire un fronte di liberazione nazionale capace di includere anche l’Esercito del Mahdi, assistiamo oggi ad un processo di scomposizione che solo in parte determina nuove aggregazioni unitarie.

Gli stessi comandi anglo-americani ammettono che la guerriglia ਠpresente anche fuori dalle aree sunnite, dove tradizionalmente vi ਠradicata fin dal 2003. Emblematico ਠil caso di Bassora, città  a netta prevalenza sciita, dove le truppe britanniche hanno dovuto rinunciare da tempo al controllo del territorio.
Secondo gli americani, nell’ultimo periodo, la maggioranza degli attacchi alle truppe di occupazione proverrebbe proprio dall’organizzazione diretta da Muqtada al Sadr. Come noto questa stessa organizzazione (l’Esercito del Mahdi) ਠaccusata dalle altre forze della resistenza di essere una semplice pedina di Teheran e di aver partecipato agli attacchi alla comunità  sunnita in particolare dal febbraio 2006 dopo l’attentato alla moschea di Samarra.

Nello stesso mondo sunnita sono presenti decine di gruppi combattenti, attraversati da profonde divisioni, solo parzialmente mitigate dalla comune matrice culturale.
Queste formazioni sono raggruppate in alcuni blocchi principali. Il blocco baathista (diviso a sua volta tra pro-siriani ed anti-siriani, attorno al quale gravitano, oltre a diversi notabili locali e autorità  religiose, anche nasseriani e comunisti) per quanto importante ਠormai minoritario.
Il campo islamico – oggi maggioritario – ਠa sua volta diviso in tre blocchi: 1) quello islamico-nazionalista, capeggiato dalle “Brigate della rivoluzione del 1920”; 2) quello salafita-takfirita, capeggiato dalla “Organizzazione di al-Qaida nella Terra dei due Fiumi”; 3) quello rappresentato dalle correnti salafita moderata e dai Fratelli Musulmani che ha recentemente fondato il “Consiglio Politico della Resistenza”.
Quest’ultimo raggruppamento, forse al momento il più consistente tra quelli in campo, ha diffuso un programma che potrebbe contribuire ad arrestare il processo disgregativo fin qui descritto, dato che rifiuta tanto la divisione del paese quanto la faida interconfessionale tra sciiti e sunniti, nella prospettiva di un governo tecnico di transizione da realizzarsi subito dopo il ritiro degli occupanti.

Il futuro della resistenza irachena, un futuro che potrà  essere decisivo anche per le altre resistenze, ਠlegato quindi non solo agli sviluppi militari, ma anche e soprattutto a quelli politici. Il banco di prova di questi sviluppi sarà  l’eventuale attacco all’Iran, visto che ormai ਠesplicita e di pubblico dominio (vedi visita di Bush nella provincia di al Anbar nel settembre scorso) la volontà  americana di recuperare una parte della resistenza sunnita agli attuali disegni politici incentrati sul confronto con Teheran.

11. Toh!, chi si rivede!

Ci siamo fino ad ora occupati dei due soggetti fondamentali della Guerra Infinita, l’imperialismo americano e le Resistenze.
Tra le cose cambiate in questi anni ce n’ਠperಠun’altra che merita la massima attenzione. Si tratta del nuovo ruolo che vengono assumendo la Russia e la Cina.
A quasi vent’anni dal decisivo 1989 (Tien a Men per la Cina, crollo dei sistemi dell’est europeo come preludio di quello dell’Urss per la Russia) queste due potenze si ripresentano come protagoniste della scena mondiale.

Archiviato ormai ogni qualsivoglia “elemento di socialismo”, anche soltanto simbolico – con la pesante eccezione di un partito che ancora si vorrebbe “comunista” al potere in Cina – questi due paesi si ripropongono non più come potenze ideologiche, bensଠcome soggetti integralmente capitalistici che intendono in qualche modo puntare ad una strutturazione multicentrica del potere mondiale. E’ in questa veste che li dobbiamo esaminare.

La Russia, che ha dovuto lentamente smaltire la sbornia di Eltsin pagando enormi prezzi sociali alla sua politica di svendita, si ਠlentamente riproposta come potenza in questi anni, giocando su due elementi: una decisa politica energetica con la quale tende a diventare il dominus di questo decisivo settore; una riaffermazione dello status di superpotenza nucleare.
Potenza energetica e potenza militare la Russia lo era anche 10 anni fa, ma al numero dei barili di petrolio estratti ed a quello delle testate nucleari disponibili non corrispondeva una politica in grado di far valere gli uni e le altre.
Oggi non ਠpiù cosà¬. Lo si ਠvisto con la politica del gas in campo energetico. Lo si ਠvisto con la ferma opposizione allo scudo antimissilistico americano in quello militare.
Al pesante autoritarismo all’interno, corrisponde un ruolo dinamico all’esterno che potrà  avere conseguenze assai importanti anche nel breve periodo.
Se, ad esempio, nel 2003 la Russia non mosse foglia a favore dell’Iraq, pur non avendo dato copertura alla guerra; oggi il sostegno di Mosca a Teheran ਠuno dei principali fattori di incertezza nella prospettiva di un attacco all’Iran.
Una conferma della nuova situazione russa ci viene dalle elezioni politiche del 2 dicembre, nelle quali si ਠassistito ad un plebiscito a favore di Putin, ad una tenuta delle forze nazionaliste (comunisti inclusi) e ad una sconfitta senza precedenti di tutte le formazioni liberiste e filo-occidentali, tutte schiacciate sotto il 2%. Questo risultato deriva certamente da un regime fortemente autoritario, ma mostra anche l’enorme consenso che si ਠcoagulato attorno alla figura di Putin e, soprattutto, l’attuale impermeabilità  alle sirene americane che ben altri successi hanno mietuto in anni recenti nell’est europeo.

La Cina degli ultimi vent’anni ha invece avuto un percorso più lineare. Un percorso fondato sul primato assoluto dell’economia, degli indici di crescita della produzione e delle esportazioni. La crescita cinese, sempre mediamente assai vicina al 10% annuo, sta portando rapidamente questo paese ai vertici mondiali.
Tutto ciಠavviene con pesantissimi squilibri interni, con oltre il 50% della popolazione che vive ancora in condizioni miserabili, facendo di questo paese uno dei luoghi dove più acute sono le contraddizioni di classe.
Sul piano dei rapporti internazionali, perà², queste considerazioni non hanno una grande rilevanza. Rilevante ਠinvece la dinamicità  dell’economia, la sua capacità  di accumulazione e di rafforzamento in ogni settore produttivo.
La Cina non ਠsemplicemente, come vorrebbero molti, la “fabbrica del mondo”, in una quasi perfetta e capitalisticamente programmata economia globale.
La Cina non produce soltanto “cineserie”, cianfrusaglie di ogni tipo a poco prezzo.
Per accorgersene basta fare attenzione a due fatti di grande attualità . Il primo riguarda il settore petrolifero. PetroChina, la prima azienda del settore, ਠstata quotata alla borsa di Shangai risultando la prima azienda al mondo per capitalizzazione (circa 1.000 miliardi di dollari, il doppio della Exxon!). Il secondo riguarda invece il settore spaziale. In ottobre la Cina ha lanciato, con il razzo Chang, il suo primo satellite lunare, primo atto di un progetto che prevede lo sbarco di astronauti cinesi sulla Luna e la costruzione di una base permanente.

Questi elementi sono la base del nuovo ruolo tanto della Russia quanto della Cina. Ma l’emersione dal letargo russo e dal silenzio cinese ha in realtà  una spiegazione più politica: esso ਠil frutto, in primo luogo, dell’impantanamento della superpotenza americana sui fronti della Guerra Infinita.
Siamo perಠancora ben lontani da un nuovo multilateralismo. Il relativo indebolimento americano ha reso meno remissiva Mosca e meno silenziosa Pechino, ma i rapporti di forza complessivi non appaiono mutati in maniera decisiva. Tuttavia, i cambiamenti avvenuti lasceranno certo il segno negli eventi dei prossimi anni, nei quali si svilupperà  certamente l’iniziativa russa e cinese tendente ad una ripartizione policentrica del potere mondiale.
Del resto, questo nuovo dinamismo già  oggi crea aree di attrito con gli Usa nei paesi centroasiatici dell’ex Urss, nell’est europeo e nel Caucaso per quanto riguarda la Russia; nell’Asia sud-orientale, in Africa ed in America Latina per quanto concerne la Cina.

12. Il gioco delle alleanze

Da quanto detto fin qui si ricava la tendenza alla costruzione di un asse Mosca-Pechino, un’alleanza di interessi comuni tra due potenze capitalistiche, una specie di scherzo della storia che seppellisce la vecchia rivalità  ideologica tra quelle che qualche decennio fa si presentavano come due “potenze comuniste”.
Mosca-Pechino non ਠperಠParigi-Mosca-Pechino, l’asse cioਠsognato dagli euroasiatisti di destra, centro e sinistra. L’Europa ha infatti preso un’altra strada. Quell’asse immaginario prevedeva anche una diramazione verso Nuova Delhi, che ਠinvece prematuro considerare come allineata con Russia e Cina. L’India segue infatti una linea geostrategica incerta e oscillante, costretta com’ਠa cercare anzitutto il consolidamento della sua posizione regionale, la quale non solo ਠcontrastata dal Pakistan a da buona parte dei suoi paesi confinanti, ma ਠanche minata all’interno dalla tenace resistenza dei popoli e delle minoranze nazionali e religiose che non accettano il predominio indù. Ed ਠproprio la complessità  di questa situazione a spingere oggi (senza per questo scommettere sul futuro) ad un rafforzamento dei rapporti tra India e Stati uniti.

Non ਠqui necessario scommettere sui futuri sviluppi di questo gioco delle alleanze. L’importante ਠcoglierne la dinamicità , frutto delle difficoltà  incontrate dagli Usa, ed alcuni punti fermi.

Il primo di questi punti fermi ਠil rapporto Russia-Cina. Per un periodo non breve queste due potenze avranno bisogno l’una dell’altra. Questo non solo per una certa complementarietà  (la Cina che ha bisogno per le proprie industrie delle materie prime russe, per esempio). Ma soprattutto per il banale motivo che nessuna delle due ha oggi una forza sufficiente per alzare la voce senza l’alleanza con l’altra.

Il secondo punto fermo ਠl’Europa. L’Unione europea ha deciso da che parte stare: sta con gli Usa e non necessariamente con un ruolo di moderazione (vedi le dichiarazioni di Kouchner sull’Iran). Non si tratta soltanto di affinità  culturale, e neanche dei profondi legami economici e finanziari esistenti. Si tratta del modo specifico con il quale l’Europa ha deciso di restare a galla, di affrontare la crisi che l’attraversa, una crisi che non ਠcongiunturale ma che pare avere piuttosto i segni del declino storico.

Il terzo punto fermo ਠche il terreno di conquista che si profila, ed attorno al quale le alleanze verranno messe alla prova, ਠil Medio Oriente ed il mondo islamico in generale. La perdita da parte americana del Medio Oriente sarebbe veramente il punto di svolta che segnerebbe la fine del monopolarismo attuale. Proprio per questo, si puಠesserne certi, il terreno non verrà  cosଠfacilmente sgombrato dall’attuale potenza dominante.
In questo quadro, il fatto che l’asse Mosca-Pechino abbia in un certo senso una diramazione verso l’Iran (pur nella specificità  della collocazione di questo paese) rende la questione iraniana ancora più acuta e complessa. Un elemento in più che attira le attenzioni americane e occidentali in genere.

13. Direzione Teheran

Abbiamo ripetutamente accennato alla probabile aggressione all’Iran, ed ਠquesto il punto più delicato dell’analisi a cui siamo chiamati.
Molti sono gli elementi che fanno ritenere che sarà  questo il prossimo fronte della guerra americana. Altri elementi potrebbero invece indurre alla prudenza, quanto meno sui tempi.

Le ragioni che spingono alla guerra sono davvero molte:
a) La dottrina strategica americana non ammette l’esistenza di potenze regionali in Medio Oriente e l’Iran ਠoggi l’unico paese, per quanto non arabo, che puಠaspirare a questo ruolo.
b) Gli Usa devono già  fronteggiare l’influenza iraniana in Iraq, in Libano ed in Afghanistan.
c) Non puಠesservi vero controllo politico, militare ed energetico del Medio Oriente che non includa il controllo dell’Iran.
d) Gli Stati uniti (e non parliamo di Israele) non hanno alcuna intenzione di consentire lo sviluppo del programma nucleare che altererebbe in modo sostanziale gli equilibri strategici della regione.
e) Aprire un nuovo fronte della Guerra Infinita, con l’obiettivo di una rapida vittoria, potrebbe essere il miglior modo per mettere tra parentesi gli impantanamenti subiti.
f) Attaccare oggi l’Iran sarebbe anche un modo per colpire l’asse in costruzione con Mosca e Pechino nel suo punto più debole.
g) Ed infine, dato che la Guerra Infinita ਠanche “Guerra di civiltà “, quale miglior bersaglio di un Iran accusato di volere addirittura lo sterminio degli ebrei?

A queste ragioni si contrappongono le difficoltà  politiche e militari, che certo gli strateghi Usa stanno valutando.
Tra queste:
a) Le conseguenze in Iraq.
b) Una capacità  di risposta missilistica che potrebbe colpire Israele, ma anche le basi Usa nell’area del Golfo Persico.
c) Le conseguenze sul prezzo del greggio, specie nel caso che possa riuscire il blocco dello stretto di Hormuz.

Tutte queste difficoltà  hanno il loro peso, ma diventerebbero niente in caso di vittoria, dove per vittoria deve intendersi non il semplice bombardamento dei siti nucleari, quanto il cambio di regime.
Se gli strateghi della Casa Bianca valuteranno come probabile la vittoria, ogni altra considerazione passerà  in secondo piano e missili e bombardieri cominceranno a volare.
E’ chiaro infatti – tutti imparano dagli errori, l’imperialismo più degli altri – che la guerra all’Iran non seguirà  il modello iracheno incentrato sull’azione terrestre e l’occupazione militare. Questo modello ha fatto fiasco in Iraq e lo farebbe ancor più in Iran. Lo schema di attacco elaborato a Washington ਠdunque assai diverso ed ਠpiù simile a quello jugoslavo, ma con una intensità  di fuoco enormemente superiore.

Naturalmente l’obiettivo del cambio di regime, con tutte le conseguenze che ne deriverebbero, puಠessere perseguito anche con mezzi non militari, ma questo ਠesattamente quanto gli Usa hanno fatto per anni puntando su Khatami fino alla vittoria elettorale (giugno 2005) di Ahmadinejad. Da allora tutto ਠcambiato, ma la “conquista di Teheran” per via politica appare quanto mai irrealistica.
L’opzione militare ਠdunque la più probabile anche se non ਠcerta.
Quel che ਠcerta ਠla direzione di marcia intrapresa, la scelta cioਠdi mettere Teheran nel mirino per ottenerne, in un modo o nell’altro, la sostanziale capitolazione.
Questa ਠla partita decisiva nell’iniziativa strategica denominata “Grande Medio Oriente”.

14. Mistero Iran

L’Iran ci viene spesso descritto come un paese misterioso e chiuso su se stesso.
In tutta evidenza non ਠcosà¬. La sua struttura politica, tra l’altro, ਠassai pluralista ed articolata, visto che i poteri del presidente (comunque democraticamente eletto) sono bilanciati da quelli della Guida suprema (Khamenei) e del Consiglio dei Saggi (presieduto da Rafsanjani) che nomina la Guida stessa.
Ne viene fuori una sorta di tripartizione dei poteri piuttosto rappresentativa della società  civile iraniana.
Le differenze politiche tra questi tre centri di potere sono assai più acute per quel che concerne la politica interna di questo paese multietnico, dove i persiani rappresentano soltanto il 50% della popolazione, che per quanto attiene alla politica internazionale.
Nei palazzi del potere di Teheran vi sono certamente differenze rispetto al rapporto con gli Stati uniti e con l’occidente in genere, ma non sono tali da mettere in discussione le ambizioni regionali del paese.

Per questa stessa ragione non ਠprevedibile una disponibilità  ad arretrare sostanzialmente sul programma nucleare, che ਠuno degli elementi su cui si fondano queste ambizioni insieme al binomio gas-petrolio ed allo sciismo, considerato come veicolo capace di esercitare una forte influenza in diversi paesi della regione.
Ma l’ambizione iraniana va anche oltre, per quanto presenti aspetti assai contraddittori.
Da un lato consiste nel porsi come paese campione della resistenza all’occidente, ruolo contraddetto dalla concreta politica applicata in Iraq, ma invece esaltato dal sostegno ad Hezbollah e ad Hamas ed ancor di più dal servilismo filo-occidentale della stragrande maggioranza dei regimi arabi.
Dall’altro, questa ambizione si fonda nel porsi come campione dell’islam in generale, tentativo apparentemente debole visto il peso relativamente modesto dello sciismo, che rappresenta soltanto il 15% degli islamici nel mondo, ma invece rafforzato sia dal sostegno ad organizzazioni di matrice sunnita come Hamas, sia dalla persecuzione che le stesse organizzazioni politiche sunnite (in primo luogo i Fratelli Musulmani) subiscono in diversi stati arabi.

Molti pensano che, nonostante tutto cià², le ambizioni di potenza iraniane poggino comunque su una base inadeguata, resa ancor più fragile non solo dalle difficoltà  economiche, ma anche e soprattutto dal mosaico delle nazionalità  che compone il paese.
Ed ਠproprio questo l’elemento sul quale gli Stati uniti stanno lavorando da tempo, utilizzando anche la consistente emigrazione, in buona parte occidentalizzata, per costruire anche in questo modo un elemento di pressione esterno/interno capace di indebolire il sistema.
Con o senza attacco militare questa sarà  certamente una carta importante nelle mani dell’imperialismo. Fino ad oggi tuttavia questa carta si ਠrivelata del tutto inadeguata ad aprire crepe veramente decisive nell’assetto di potere tripartito che governa l’Iran.
E proprio questo insuccesso spinge al ricorso alla guerra.

15. Il “peak oil”

Da anni sosteniamo che il controllo del Medio Oriente ਠil tassello decisivo per dominare il mondo. E questa ਠla ragione fondamentale della spasmodica ricerca del controllo totale della regione da parte della superpotenza americana.
Ovviamente, in linea generale, questo controllo potrebbe essere ottenuto per via politica. Ed in larga misura ਠeffettivamente cosà¬, basti pensare all’Arabia Saudita, all’Egitto, alle petromonarchie del Golfo. Ma non sempre ciಠਠpossibile, ed in questi casi gli Usa hanno sistematicamente giocato la carta militare.

Alla necessità  strategica di questo controllo si aggiunge oggi un aspetto energetico non solo altamente simbolico ma foriero di pesanti conseguenze economiche e geopolitiche: si tratta del cosiddetto “peak oil”, cioਠil raggiungimento su scala mondiale del picco della produzione petrolifera.
Questo picco, più volte annunciato e poi rimandato nel tempo, sembra essere ormai un dato di fatto.
Da tre anni la produzione mondiale giornaliera si ਠstabilizzata poco sopra gli 85 milioni di barili ed ਠassai verosimile che il 2007 sia il primo anno a segnare un calo produttivo (per quanto ovviamente modesto) rispetto all’anno precedente.
I dati alla fine potranno anche risultare un po’ discordanti, perchà© presentano delle differenze a seconda della fonte, ma al di là  del dettaglio la tendenza di fondo viene riconosciuta da tutti (Iea – Agenzia Internazionale dell’Energia, stati produttori, multinazionali del settore).
La stabilizzazione della produzione ਠammessa apertamente, cosଠcome la precedente sopravvalutazione delle riserve effettivamente disponibili. Ne consegue che le tensioni sul prezzo del petrolio di queste settimane non sono esclusivamente legate a fattori speculativi. O meglio, la speculazione c’ਠsempre, ma per poter essere davvero efficace deve avere una base concreta, che in questo caso c’ਠeccome.

Come noto la situazione di picco del petrolio non ਠmolto diversa da quella prevedibile per il gas. Qui la punta potrà  essere ancora spostata in avanti per qualche anno, non di più.
Naturalmente questa situazione potrebbe subire delle variazioni sia in virtù della scoperta di nuovi consistenti giacimenti, sia per l’utilizzo delle sabbie bituminose qualora diventassero competitive a causa dell’aumento del prezzo del petrolio.
Ma se ਠben difficile ipotizzare nuove scoperte in grado di soddisfare una domanda che tra 25 anni potrebbe essere di oltre 120 milioni di barili al giorno (stime considerate prudenziali di diversi istituti di ricerca), ਠancora più difficile che il sistema economico accetti tranquillamente un consistente aumento dei prezzi per consentire graziosamente l’utilizzo delle sabbie bituminose.
E’ vero che nel frattempo verranno prese certamente delle contromisure (energie alternative, nucleare e – soprattutto – il vecchio carbone), ma per quanto ci si sforzi in questa direzione il binomio petrolio-gas resterà  decisivo e strategicamente ancora più importante.
Ed importante sarà  non solo la produzione ma il suo controllo, diretto o demandato a stati controllati.
Questa enorme problematica non si esaurisce certo con l’Iran e neppure con l’intero Medio Oriente, ma ha nel Medio Oriente il luogo decisivo e nell’Iran uno snodo essenziale per capacità  produttiva e riserve accertate sia di petrolio che di gas.

16. Con quali mezzi, con quali obiettivi?

Se la prospettiva – probabile anche se non certa – ਠquella dell’apertura di un nuovo gigantesco fronte della Guerra Infinita, occorre interrogarsi in primo luogo sui mezzi che verranno utilizzati per l’attacco, ed in secondo luogo sugli obiettivi politici immediati di questa iniziativa.

I mezzi sono naturalmente politici, propagandistici ed ovviamente militari.
Quelli politici consistono nel tentativo di allargare l’isolamento internazionale dell’Iran, di rafforzare le opposizione interne, di rinsaldare il blocco occidentale a partire dall’Unione europea. E’ verosimile che quest’ultima esigenza possa includere il cambio di governo in Italia, paese non cruciale ma comunque importante anche per la presenza di militari in Libano, dove certo si aprirebbe un altro fronte, ed in Afghanistan dove la provincia di Herat (dove ਠschierato il grosso delle truppe italiane) verrebbe a trovarsi di fatto sulla prima linea del conflitto. Probabile dunque che a Washington si lavori per un governo con una base parlamentare un po’ più ampia e sicura.

Prevedibilmente, i mezzi propagandistici cambieranno rispetto al clichà© abituale degli ultimi 20 anni. Non ਠil caso di aspettarsi un lungo crescendo mediatico come ਠavvenuto nel 2002-2003 per l’Iraq. Quel modello ਠfallito e non ci verrà  riproposto nello stesso modo.
Oggi gli Usa hanno una carta propagandistica enorme – il pericolo atomico, il nuovo “olocausto” ecc. – in mano ad una macchina propagandistica poco credibile.
Il modo per uscirne sembra solo uno: un fatto, un incidente che renda credibile la minaccia paventata. In quel momento e solo in quel momento la macchina mediatica si scatenerà . Ma da quel momento all’inizio dell’attacco non passeranno mesi, ma al massimo solo settimane.

A quel punto entreranno in campo i mezzi militari. Anche qui abbiamo già  detto che non ਠpensabile la replica del modello iracheno. Se attacco sarà  esso si presenterà  prevalentemente, non perಠesclusivamente, come attacco aereo e missilistico con una potenza di fuoco mai vista.
In proposito ਠassai illuminante quanto ha scritto qualche tempo fa il generale Mini, esperto di questioni strategiche e solitamente “persona informata dei fatti”. Secondo il generale, con la cosiddetta “Operazione sciame di fuoco” gli Stati Uniti e Israele non mirano soltanto agli impianti nucleari, ma a cancellare tutta la potenza iraniana. Per Mini tutto ਠpronto, ora <>.
A quel punto, dice il generale, nessun attacco “chirurgico” appare pensabile, ed allora: <>.
Questa lunga citazione ci dice chiaramente una cosa: tutto ਠpronto per un’azione devastante e non ਠesclusa neppure l’arma atomica.

Abbiamo già  visto cosa rappresenta l’Iran nella strategia globale degli Usa. Mentre abbiamo escluso che possa essere realizzata una vera occupazione militare (modello Iraq), abbiamo chiarito che l’obiettivo politico immediato ਠsicuramente il cambio di regime.
Escludere una vera occupazione non significa perಠscartare la possibilità  di azioni terrestri coordinate con gli attacchi aerei e missilistici. Queste azioni sono anzi assai probabili, soprattutto nella fase iniziale dell’attacco. Quel che escludiamo ਠche una vera occupazione militare sia oggi nei piani americani, fermo restando che quel che avverrà  in seguito dipenderà  ovviamente dagli sviluppi sul campo.
Lo ribadiamo: l’obiettivo politico immediato degli Usa ਠil cambio di regime. Un obiettivo che, se raggiunto, avrebbe grandi conseguenze.
Un Iran piegato, con un governo addomesticato se non servile, determinerebbe sia l’indebolimento della resistenza palestinese e di quella libanese, che il rafforzamento del controllo americano dell’intera area. Un controllo che non potrà  mai essere direttamente “controllo del territorio”, ma piuttosto un mix di governi amici, collaborazionisti, basi militari, azioni belliche quando serve.
In ultimo, una vittoria sull’Iran potrebbe servire a dipanare la stessa matassa irachena, un motivo in più per tentare l’azzardo.
E’ proprio l’Iraq, perà², il vero punto debole della strategia Usa. Tutti i tentativi di stabilizzazione sono infatti falliti e non ਠdifficile immaginare che proprio in questo paese si aprirebbe un vero fronte terrestre nel quale le truppe americane verrebbero impegnate duramente.

17. E in Occidente?

Torniamo ora a noi. Torniamo cioਠalla situazione in occidente. Sicuramente una nuova guerra produrrà  nuove proteste, ma in che contesto, e con quale efficacia?
La debolezza strategica e culturale del movimento pacifista non potrà  certo risolversi grazie agli stimoli guerreschi dell’avversario. Questi produrranno forti sussulti, ma ben difficilmente avremo di nuovo le piazze piene come nel 2002-2003.
Del resto la crisi dei movimenti conflittuali ਠgrave, ed ਠin larga misura il prodotto di un’americanizzazione della società  largamente consumata.
In Europa – e l’Italia ne ਠun caso significativo – assistiamo sempre più chiaramente alla morte della democrazia politica tradizionalmente intesa, essendosi progressivamente trasformata la politica in tecnica di governo funzionale alle oligarchie.

Condizione di questo processo ਠstato il totale disfacimento del movimento operaio, di cui l’agitarsi movimentistico del cosiddetto “antagonismo” ਠsoltanto una coda pittoresca ed ininfluente.
Sul piano politico questo processo ਠstato accompagnato dalla progressiva integrazione della sinistra, incluse le sue ridicole appendici “radicali”, nella logica della governabilità , oggi chiamata “governance”.
L’affinamento dei sistemi elettorali ਠsolo la parte terminale di un processo che ha profonde radici sociali e culturali. Con questo affinamento si persegue il duplice e contestuale obiettivo dell’intercambiabilità  finalizzata alla governabilità  per chi sta dentro il sistema politico, dell’esclusione forzata e totale per chi ne sta fuori. Pur con tutte le sue contraddizioni questo meccanismo di inclusione/esclusione funziona assai egregiamente come selettore sistemico.

Chi, per i motivi più diversi, resta fuori, ਠspesso destinato alla lotta senza speranza, come nel caso – enorme eppur dimenticato – delle banlieus francesi (autunno 2005).
Si sviluppano perciಠmovimenti anche vasti ma delimitati a tematiche specifiche (in Italia, i No Tav ed il movimento vicentino contro la nuova base Usa). Queste realtà  cercano di sfuggire al meccanismo di inclusione/esclusione aggirandolo proprio con la delimitazione cosciente del proprio campo d’azione. Si produce cosଠuna curiosa scissione tra la Politica con la P maiuscola (quella delle dinamiche istituzionali) ed una politica con la p minuscola, pulita, dignitosa e rispettabile ma incapace di competere con la prima che viene sempre attaccata soltanto di striscio.
Questa dinamica puಠforse evolvere verso un futuro diverso, di possibile riorganizzazione delle forze popolari attraverso un più profondo distacco dal ceto politico di regime, ma ad oggi questa ਠsoltanto un’auspicabile tendenza da coltivare con ogni mezzo ma non certo una realtà  di fatto.
La lotta degli antimperialisti in occidente ਠdunque necessariamente una “lotta dietro le linee”, cosଠcome abbiamo scritto nel documento preparatorio della precedente assemblea nazionale.
E realisticamente sarà  cosଠancora per un bel pezzo. Questo non significa sminuire l’importanza del nostro lavoro, quanto piuttosto contestualizzarlo nella maniera più corretta.

18. Immigrazione, securitarismo, forza lavoro

Le difficoltà  della situazione in Europa sono accresciute da tre fenomeni che sono al tempo stesso parte ed effetto del processo di americanizzazione. Si tratta del peso crescente dell’immigrazione, dell’affermarsi del bisogno securitario, della segmentazione etnica della forza lavoro oltre che della sua precarizzazione.

In Europa il fenomeno migratorio ਠin crescita costante, ed ਠinnanzitutto la conseguenza diretta del declino demografico del continente. Troppi sono i vuoti che l’economia capitalistica deve in ogni modo riempire. Troppi (si pensi al caso delle cosiddette “badanti”) i nuovi bisogni che una popolazione invecchiata deve soddisfare.
Da questi dati di fatto scaturisce una curiosa schizofrenia della politica come della società .
Da un lato si vorrebbero braccia maschili per l’edilizia e l’agricoltura, signore full time per l’assistenza agli anziani, belle ragazze per la prostituzione di vario livello, giovani disponibili per ogni attività  criminale. L’importante ਠche ad ognuno di questi settori produttivi (anche la criminalità  lo à¨) non manchi forza lavoro al più basso prezzo possibile.
Dall’altro si pretenderebbe che questa nuova popolazione fosse soltanto “forza lavoro”, braccia senza testa, organismo biologico senza cultura e senza radici. Questa pretesa ਠla base della cosiddetta “Fortezza Europa”, come di ogni legislazione nazionale tesa a controllare, quando non addirittura a reprimere (come il recente decreto Amato) i flussi migratori. In definitiva ਠla base del razzismo, un fenomeno di un’ampiezza nuova per qualità  e quantità  nell’Europa post 1945.

In Italia questo fenomeno si va allargando a macchia d’olio, dato che le tradizionali difese immunitarie ormai non esistono più. Al razzismo di destra si aggiunge cosଠil più digeribile securitarismo di “sinistra”, una polpetta avvelenata che ਠrimasta l’unica cosa che i nostri sinistri governanti sanno offrire ad un popolo allo sbando in cerca di “certezze”.

Tuttavia, al di là  della propaganda securitaria, la domanda di forza lavoro resta.
Ne consegue non solo e non tanto, come recita il lamento razzista, una guerra tra poveri disoccupati italiani e poveri disoccupati stranieri, quanto piuttosto una irresistibile tendenza alla segmentazione della forza lavoro, fenomeno del resto ben noto nelle società  europee (Francia, Germania) che hanno conosciuto consistenti flussi migratori assai prima dell’Italia.
Questo processo di segmentazione ਠl’ultimo colpo assestato all’illusione dell’unità  di classe e mette in luce l’estrema fragilità  del lavoro salariato (anche sul piano meramente sindacale) di fronte all’offensiva del capitalismo ultraliberista di oggi.

19. La questione islamica

Tutto questo ragionamento ci porta ad affrontare la questione islamica.
Una questione per la verità  assai più complessa, posta in primo luogo dalla caratterizzazione prevalente (islamica, appunto) delle attuali resistenze all’imperialismo. Ma ਠproprio l’intreccio di questi due elementi, interno il primo (l’immigrazione), esterno il secondo (le resistenze) che ci segnala l’importanza assoluta di questa questione.
Riconoscerne la rilevanza ਠdunque il primo passo da compiere per avvicinarci ad una corretta comprensione del fenomeno.

L’islam fa paura non tanto dal punto di vista religioso, ma in quanto islam politico, corrente di resistenza culturale, politica e (in qualche caso) militare allo strapotere imperialista.
Il caso dell’Iraq ci ha mostrato in maniera plastica il processo di islamizzazione della resistenza, inteso come necessità  storica di ricercare le comuni basi culturali di un popolo nel momento in cui esso, per poter resistere, ha bisogno della massima coesione e del più grande coraggio.
Se in Iraq il processo di islamizzazione ਠmaturato nel tempo, in Palestina la vittoria elettorale di Hamas ci ha detto la stessa cosa: nelle società  islamiche la religione ਠil collante più potente che tiene insieme resistenza (a differenza dei traditori in mercedes della corte di Abu Mazen) e solidarietà  sociale.
Lo stesso fenomeno lo si ਠvisto in Libano, dove nel “Partito di Dio” (Hezbollah) sono in realtà  confluiti tanti rivoli della vecchia sinistra libanese desiderosi di continuare la lotta contro il sionismo.
Questo ruolo resistente dell’islam ਠfrutto, almeno in parte, del “caso della storia”. Se il Medio Oriente islamico non avesse la centralità  che ha nella strategia imperiale, certo l’islam avrebbe oggi un ruolo ben diverso.
Ma il Medio Oriente ਠlଠe l’islam pure, e solo i ciechi possono continuare a negarne la valenza politica in termini di resistenza.

Veniamo ora all’islam interno, figlio dei flussi migratori. Anche se le ondate più recenti di questi flussi non sono islamiche, provenendo piuttosto da Romania, Polonia, Ucraina ecc., l’immaginario collettivo tende ad identificare i due fenomeni quando in realtà  i musulmani sono soltanto il 50% del totale degli immigrati.
La paura del diverso ਠdunque in larga parte paura dell’islamico, anche se più recentemente hanno fatto la comparsa nell’elenco dei cattivi prima i misteriosi cinesi, poi i ben più noti rom.
Resta il fatto che tutta la propaganda xenofoba tende a concentrarsi principalmente sui musulmani. Il tema della crescita del numero delle moschee, del velo, della poligamia, più in generale delle libertà  della donna sono i temi propagandistici preferiti. Temi che in genere preludono all’attacco politico sugli islamici terroristi, preparatori di attentati eccetera.
Le iniziative della magistratura, persecutorie quanto generalmente infondate, fanno il resto. E dall’azione congiunta di stampa e magistratura nasce quella che abbiamo definito “islamofobia”, cioਠrazzismo anti-islamico. Un razzismo che ha le sue radici storiche nel colonialismo europeo che ha giustificato il genocidio e la schiavizzazione di interi popoli ritenendoli razze inferiori, che in forme non meno virulente nazismo e fascismo hanno utilizzato contro le minoranze ebraiche.

Cosଠcome sosteniamo le resistenze islamiche, al pari di ogni altra resistenza antimperialista, abbiamo il dovere di batterci contro l’islamofobia sia rispetto alle frequenti iniziative giudiziarie sia sul piano culturale e politico di fronte all’ondata montante di razzismo.
La necessaria intransigenza politica e di principio su questo punto fondamentale non significa – come malevolmente insinua qualche nostro critico – che dobbiamo a nostra volta “islamizzarci”.
A queste considerazioni generali, ne aggiungiamo altre di natura politica.
Il colore prevalente (non l’unico, neppure in Afghanistan) delle attuali resistenze ਠil verde islamico. Dietro a questo colore ci stanno tante cose: visioni della società  spesso in conflitto tra loro, popoli e classi con interessi differenziati e contrapposti, versioni settarie ed escludenti insieme a concezioni più aperte ed unitarie.
Non esiste un unico islam, cosଠcome non esiste un unico cristianesimo. Esiste, perà², per una serie di motivi, un ruolo storico decisivo dell’islam nelle concrete resistenze antimperialiste della nostra epoca. Solo dei folli allucinati eurocentristi possono continuare a negarlo.
Gli antimperialisti, fermo restando il dovere di sostenere politicamente tutte le resistenze islamiche, si sentono vicini a quelle che sposano gli ideali di fratellanza, uguaglianza e libertà .
Oltretutto, lo stesso ruolo storico che riconosciamo all’islam finirebbe con lo svuotarsi progressivamente se non dovesse svilupparsi una sua capacità  di confronto ed interlocuzione con altre culture, senza il quale per esempio non ਠneppure pensabile un fronte antimperialista internazionale.

20. Fase 2 della Guerra Infinita: che fare?
Compito di questo documento ਠquello di fare il punto, di aggiornare l’analisi, ferma restando la nostra concezione dell’imperialismo contemporaneo. Un imperialismo a struttura monopolare il cui centro sta a Washington.
Questa strutturazione ਠil frutto di un processo storico assai lungo che ha le sue date decisive nel 1945 e nel 1989 ed i cui esiti sono ben lungi dall’essere rovesciati.
Ne consegue che il nemico principale (che non vuol dire l’unico) per le resistenze, per i popoli oppressi e per chi vuol essere concretamente antimperialista ਠrappresentato dagli Stati Uniti d’America.

Al tempo stesso, sulla base dell’analisi che proponiamo, consideriamo l’antimperialismo come la risultante di una precisa visione strategica, come una forza globale per quanto articolata, come la forma concreta che ha assunto l’antagonismo antisistemico nella nostra epoca.

Se questo ਠvero sul piano generale, occorre perಠinterrogarsi sulla specificità  della situazione in cui operiamo in Italia ed in Europa. Abbiamo iniziato a farlo più insistentemente nell’ultimo anno, traendone delle prime conseguenze politiche ed organizzative che andremo a verificare e precisare nella prossima assemblea nazionale.

Il tentativo che qui ci proponiamo di svolgere ਠquello di fornire gli elementi analitici che debbono guidarci nel definire le priorità  e l’agenda della nostra iniziativa.
Avendo chiara la configurazione dello scontro, sapendo che il centro del conflitto non ਠpiù in Europa, tenendo ben presente la centralità  delle resistenze e la necessità  di un percorso unitario verso la costruzione del fronte antimperialista internazionale, bisogna infatti definire sia pure per grandi linee le coordinate di fondo capaci di guidarci nell’azione in quella che possiamo definire come la Fase 2 della Guerra Infinita.
Questa fase non ha ancora preso definitivamente forma, ma ਠin gestazione da tempo. Proprio per questo ਠimportante utilizzare questo periodo di transizione (presumibilmente assai breve) per attrezzarci al meglio.

Concludiamo dunque indicando 6 elementi di indirizzo generale di fase.

1. <>, deve essere questo lo slogan con il quale prepararci all’apertura di questo nuovo fronte. Un fronte destinato ad innescarne altri, facendo dell’intero Medio Oriente un immenso campo di combattimento.
Lo ripetiamo: non ਠsicuro che si arrivi alla guerra. Bush cerca anzitutto un “regime change”, fomentando la cacciata di Ahmadinejad affinchà© a Teheran il potere passi nelle mani della frazione disposta ad un accordo strategico con gli Usa. Ove questo non accadesse Bush scatenerà  la sua imponente macchina da guerra.
Viste le enormi conseguenze che ciಠavrebbe dobbiamo assumere questa eventualità  come la priorità  assoluta. Giù le mani senza sà© e senza ma, cosଠcome abbiamo detto e scritto per l’Iraq.
Dobbiamo sapere fin da ora che questa battaglia sarà  presumibilmente più difficile per gli elementi ideologici che verranno gettati in campo. L'”atomica degli ayatollah” ਠcertamente un’arma propagandistica più forte della necessità  di “democratizzare l’Iraq” (alle armi di sterminio di massa in ben pochi credevano). Tuttavia ਠla nostra battaglia.
Attenzione!, ਠassolutamente probabile che prima del fronte principale se ne possano aprire (e già  se ne stanno aprendo) altri “secondari”, ad esempio con la precipitazione della crisi nel grande scacchiere cha va dalla Palestina al Pakistan, passando per il Libano, l’Iraq, il Kurdistan e l’Afghanistan.
La precipitazione di questa crisi, qualora si verificasse effettivamente, dovrebbe essere contestualizzata nel quadro generale di quella che abbiamo definito “fase 2” e che vede nella crescente influenza iraniana l’obiettivo principale dell’iniziativa imperialista.

2. La campagna per Gaza che stiamo conducendo tende ad unire l’aspetto specifico (il no all’embargo) con il più generale quadro mediorientale.
Dalla recente conferenza di Annapolis ਠarrivato un ulteriore impulso alla politica genocida di Israele. Ad Annapolis gli Usa hanno arruolato definitivamente Abu Mazen, con lo scopo di utilizzarlo per piegare la volontà  di resistenza del popolo palestinese. Questo passaggio prelude ad un’intensificazione degli attacchi contro le forze della resistenza, intensificazione che ਠgià  in atto.
In questo quadro la campagna per Gaza risulta ancor più importante, perchà© interviene – per quanto oggi ਠpossibile – nel cuore dello scontro in atto.
Con questa iniziativa abbiamo cercato di legare in maniera assai stretta gli aspetti politici con quelli umanitari. La nostra campagna ਠcertamente un piccolo granello di sabbia davanti alla macchina infernale imperialista-sionista, tuttavia essa ci consegna un’indicazione di fondo: la necessità  di continuare su questa strada del legame politico-umanitario.
Questo non solo per ragioni tattiche, ma almeno per altri due motivi. In primo luogo perchà© il nostro antimperialismo ha un fondamento etico, in secondo luogo perchà© dobbiamo affermare una pratica del “fare” in un’epoca in cui ਠgià  difficile il “dire”.
Da qui l’importanza che assegniamo alla nascente associazione di volontariato antimperialista.

3. Dopo mesi di preparazione deve essere finalmente fondata SUMUD, l’associazione di volontariato antimperialista. Si tratta, come spiegato nelle 32 Tesi, di una leva importante della nostra futura attività , lo strumento con il quale intercettare tutti quei giovani che possiedono una elementare coscienza antimperialista, che anche solo sentimentalmente si sentono vicini ai popoli resistenti, e che cercano forme fattive e concrete di solidarietà  e ai quali non bastano più le liturgiche manifestazioni di piazza o gli sterili dibattiti.
Dobbiamo attivarci affinchà©, definito nei dettagli un progetto (costituzione di SUMUD come Onlus, scelta del luogo della prima missione, definizione degli strumenti necessari ecc.) già  nel corso del 2008 sia possibile attuare la prima “missione antimperialista”.

4. Più lotta concreta contro le basi militari, meno manifestazioni ritualizzate.
In concreto, per l’Italia: più Vicenza, meno Roma. Questo non vuol dire illudersi troppo sul movimento vicentino, vuol dire semplicemente essere concreti e conseguenti con quanto andiamo dicendo da tempo sul movimento contro la guerra.
La ritualità  ha una sua funzione, ma al settimo anno di Guerra Infinita ha cominciato davvero a stancare un po’ tutti, ad eccezione dei “professionisti della piazza a prescindere” che hanno sempre un loro specifico calendario, in genere speculare a quello della sinistra istituzionale.
A Vicenza abbiamo invece un movimento moderato, ma radicato. E’ certo che a Vicenza esso si ਠmanifestato per un insieme di ragioni che vanno ben oltre l’opposizione alla guerra, che se la base fosse stata prevista altrove molti vicentini sarebbero rimasti a casa. Ma questo ਠappunto il massimo che possiamo aspettarci in una fase come questa.
Meglio dunque un moderato movimento reale con un obiettivo concreto, che un movimento estremista residuale e parolaio. Una nuova coscienza radicalmente antimperialista potrà  svilupparsi solo attraverso nuovi percorsi.

5. Lotta senza quartiere all’islamofobia ed al razzismo in genere. Lotta dunque a difesa dello stato di diritto.
E’ questo l’altro fronte interno che dobbiamo curare al massimo, individuando le forme di un’iniziativa non estemporanea. In alcuni momenti questo potrà  essere addirittura il fronte principale. Abbiamo visto nelle scorse settimane quanto sia facile far precipitare il paese in una spirale securitaria. E’ questa un arma potentissima in mano al ceto dominante, in particolare a quello preposto alla gestione politica sia esso di destra che di centrosinistra.
Per alcuni aspetti l’Italia ਠgià  uno stato di polizia, dove ormai chi ha una divisa spara e chi dovrebbe almeno commentare la notizia finisce anch’esso per indossare la divisa. Ma non pensiamo di avere già  toccato il fondo. Il securitarismo, proprio perchà© incapace di affrontare i problemi grazie ai quali si sviluppa, ਠdestinato a rincorrersi come il gatto che si morde la coda e possiamo essere certi che i centri statali preposti alla repressione ne approfitteranno, come in realtà  stanno già  facendo, per colpire ogni antagonismo.
Data la portata della svolta autoritaria e repressiva in atto, proponiamo di lavorare alla costruzione di una forte iniziativa su questi temi, che culmini in un’iniziativa centrale con al centro la difesa dello stato di diritto.

6. Il sostegno alle Resistenze continuerà  ad essere la stella polare della nostra iniziativa.
L’appoggio andrà  dato a tutte le concrete resistenze che si determinano di fronte all’incedere delle aggressioni imperialiste. Senza sà© e senza ma.
Questo ਠil punto che in questi anni ci ha qualificato e distinto da tutti gli altri anche nel campo degli antimperialisti.
E’ chiaro perಠche in questa attività  – che dovrà  continuare ad essere assolutamente centrale – dovremo privilegiare le forze che non solo combattono il nemico comune, ma che ricercano concretamente l’unità  con le altre forze resistenti del loro contesto nazionale, nella prospettiva della costruzione di un fronte comune internazionale.
La strada sarà  lunga, ma non vi sono alternative.

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