Come opporsi al rinascente Impero Han senza diventare servi di quello americano?
In quest’olimpiade di ipocrisia centinaia di parlamentari, in un vero e proprio “blocco delle larghe intese”, si son ritrovati a Campo de Fiori, in Roma, per esprimere la loro solidarietà , più che ai rivoltosi tibetani, ai monaci buddisti e al Dalai Lama —che in Tibet non ha alcun seguito di massa e ciಠਠconfermato dal fatto che i giovani in rivolta non hanno affatto inneggiato al suo ritorno. Ironia della storia, l’happening romano si ਠsvolto ai piedi della statuta che ricorda il sacrificio di Giordano Bruno, uno che monaci con la tunica di altro colore misero al rogo a causa delle sue idee. Come se non bastasse il Parlamento ਠstato urgentemente riaperto per esprimere esecrazione. Un successo senza precedenti della lobby anti-cinese, resa possibile da quel parvenu in caschemire che presiede la Camera dei Deputati, all’anagrafe Fausto Bertinotti. Una lobby buddhista per modo di dire e americanista nella sostanza, una lobby che vorrebbe spingere l’Occidente su una posizione di più aggressivo contenimento del Dragone.
La dichiarazione di Bush per cui non avoca l’indipendenza del Tibet e che andrà alle imminenti Olimpiadi di Pechino sono un bel ceffone per il variopinto fronte filo-dalai. La decisione di Washington di non fare troppo casino indica che per un’America alle prese con una fortissima crisi economica gli affari e la montagna di soldi cinesi che affluiscono nelle casse yankee sono per ora molto più importanti dei diritti dei tibetani.
Sarebbe tuttavia un errore scambiare la tattica per la strategia. L’establishment statunitense considera infatti la Cina capitalista un incipiente nemico strategico, un nemico la cui espansione deve essere contenuta, se necessario anche perseguendo una politica di destabilizzazione interna. A questo disegno risponde la decisione di fare del Tibet una seconda Taiwan. Il 28 ottobre 2001 il Congresso degli Stati Uniti, proprio mentre invadeva l’Afghanistan e si preparava a fare altrettanto con l’Iraq, con un bipartizan Foreign Authorization Act, approvava la risoluzione in cui riconosceva “il Tibet, comprese quelle aree incorporate nelle province cinesi di Sichuan, Yunnan, Gansu e Qinghai, [ovvero il “grande Tibet”] un paese occupato secondo i principi stabiliti della legge internazionale”. La risoluzione stabliva inoltre che il Dalai Lama e il suo Governo tibetano in esilio, erano gli autentici rappresentanti del Tibet.
Questa decisione non cadde dal cielo, era al contrario il risultato di una geopolitica di lungo periodo, una geopolitica che non tollera concorrenti nel controllo del Pacifico e dell’Asia e di cui la vicenda tibetana ਠsolo un tassello, un pretesto, un casus belli da tirar fuori alla bisogna. Gli Stati Uniti mai digerirono il crollo della teocrazia buddo-lamaista negli anni ’50 e l’avanzata della rivoluzione popolare cinese. Che quella rivoluzione abbia portato ad una progressiva annessione non puಠfar dimenticare cosa fosse il Tibet fino agli anni ’50: nessun regime al mondo era più crudelmente teocratico e schiavista di quello del Dalai Lama e dei 180 Hutuktu. Sin dai primi anni ’50 la CIA si occupಠdi sostenere direttamente la rivolta lamaista e fino al 1969, sempre la CIA, finanziava la guerriglia e addestrava gli anticomunisti tibetani nel campo di Hale in Colorado. La stessa fuga del Dalai Lama nel 1959 in India fu direttamente organizzata dai servizi segreti americani. Questo appoggio cessಠnell’epoca Kissinger, quando gli USA decisero di agganciare la Cina in funzione antisovietica.
L’ostilità strategica imperialistica verso la Cina, che denunciamo come foriera di una nuova guerra mondiale, non puಠtuttavia spingerci, nà© a stabilire l’equipollenza tra il Tibet e Taiwan; nà© a farci dimenticare che la Cina di oggi ਠfiglia di una colossale controrivoluzione sociale. Riguardo alla questione nazionale va poi ricordato che Cina non solo esitono una cinquantina di minoranze nazionali, va detto che c’ਠun’effettivo predominio degli Han (come a Taiwan, dove i nativi sono stati genocidiati), predominio che si manifesta in tutte le sfere sociali e che ਠdiventato assoluto negli ultimi decenni di restaurazione capitalista, restaurazione che ha incoraggiato a dismisura la spinta colonizzatrice Han in quasi tutte le Provincie autonome (la Costituzione del 1982, quella che legittima la proprietà privata capitalistica, pur assegnando formalmente una vasta autonomia alle provincie autonome, non riconosce in alcuna maniera il diritto all’autodeterminazione).
Non ci passa per la testa di avocare lo smembramento della Cina in piccoli staterelli (come fece il vecchio colonialismo europeo e come forse sperano accada in futuro i tecnici del dominio imperialista occidentale). Ma neanche possiamo tacere le sofferenze che alcuni popoli subiscono a causa dell’oppressione razzista degli Han, primo fra tutti il popolo uyguro del Xinijang. Se ieri gli Han pretendevano di portare il socialismo e di strappare questi popoli al “feudalesimo”, oggi essi cercano di strapparli ad un’economia agraria che per quanto arretrata ਠancora collettivista, ed esportano un capitalismo selvaggio e sfruttatore.
Se fossimo tibetani avremmo probabilmente partecipato alla rivolta. Saremmo stati al fianco del nostro popolo, a rivendicare il diritto di essere padroni in casa nostra. Ci saremmo scagliati, assieme ai tanti giovani esausti della colonizzazione cinese, contro i simboli dello strapotere Han, ovvero i templi del potere e quelli del denaro. Non avremmo tuttavia inneggiato al Dalai Lama, avremmo anzi denunciato i “democratici ” occidentali che tuonano lampi e fulimini contro i regimi teocratici islamisti, ma in Tibet vorrebbero restaurare la dittatura teocratica lamaista. Solo stando a fianco di chi combatte contro l’ingiustizia si puಠsperare che la lotta non sia strumentalizzata dalle diverse forze politiche reazionarie dell’opposizione tibetana, che usano la bandiera dell’indipendenza per salire al potere e fare gli affari al posto degli Han. Stare alla finestra, fare gli indifferentisti, non ਠnella nostra indole.
V’ਠchi ci criticherà , sostenendo che non c’ਠalcun posto tra l’imperialismo euro-atlantico e il neoimperialismo sino-russo. Esso ha perduto ogni speranza nei movimenti di emancipazione dei popoli. Noi no.